Fare di Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, il protagonista di un capitolo di un libro che parla di blues può all’apparenza sembrare una bestemmia, eppure il blues e l’armonica sono stati per il primissimo Dylan compagni di viaggio inseparabili e, ancora oggi, possiamo tranquillamente affermare che Bob Dylan ha suonato più blues di tanti altri artisti che si sono spesso spacciati per bluesmen senza esserlo realmente.
Per parlare del rapporto di Dylan con il blues ci vorrebbe un libro a parte. La sua primissima incisione amatoriale – fatta da Ric Kangas, suo compagno di liceo, e risalente al 1959 –, fu un blues scritto da lui, un vero e proprio slow blues intitolato When I Got Troubles. All’inizio della sua carriera, quando Dylan arriva nel 1961 a New York, ad attrarlo è un po’ tutta la musica folk americana e quindi anche il blues, che gli piace moltissimo. I suoi maestri in quegli anni pare fossero il grande Jesse “Lonecat” Fuller, Blind Lemon Jefferson – di cui inciderà una canzone, See That My Grave Is Kept Clean –, Bukka White, Son House, Memphis Minnie, Jimmy Reed, Mississippi Fred McDowell e Blind Arvella Gray, che Bob aveva visto cantare sui marciapiedi di Chicago. Probabilmente a influenzarlo in quegli anni è anche l’imponente figura di Big Joe Williams che Dylan conosce a Evanston nell’Illinois durante la sua fuga da casa all’età di dodici anni.
In parecchie interviste Dylan ha detto di dovere molto alla musica di bluesmen come Lightnin’ Hopkins, Big Maceo Merriweather, Tommy McLennan, Reverend Gary Davis, di cui inciderà più volte Cocaine Blues, Blind Willie McTell e Willie Brown. Degli ultimi dueDylan interpreterà rispettivamente Broke Down Engine e Ragged & Dirty nel suo acclamatissimo album World Gone Wrong del 1993. Negli anni turbolenti della sua gioventù a colpirlo profondamente sono anche le canzoni di Bo Diddley, Chuck Berry, Hank Williams, Jimmie Rodgers e naturalmente Woody Guthrie, tutti artisti che hanno nel proprio sound una forte componente blues. I suoi talkin’ blues d’inizio carriera sono sicuramente ispirati a quelli che lo stesso Guthrie imparò probabilmente dai vecchi bluesmen e da compagni di strada come Leadbelly, Sonny Terry e Brownie McGhee. In una recensione dei suoi primi concerti un giornalista scrisse una frase che non lascia dubbi: “Dylan ha imparato a tirar fuori una musica eccitante e sferzante che deve molto al blues”.
Al suo arrivo al Greenwich Village, Dylan comincia a frequentare il locale in cui si ritrovano tutti gli appassionati di folk: il Gerde’s Folk City. Lì incontra nuovamente Big Joe Williams, con il quale stringeamicizia. Tramite lui, conosce anche Victoria Spivey, e con entrambi ha l’occasione di esibirsi dal vivo e di registrare alcuni brani suonando l’armonica e facendo i cori. Il disco che incidono insieme si chiama Three Kings And A Queen e nella formazione comprende, oltre a Dylan, Victoria Spivey e Big Joe Williams, due sidemen d’eccezione: Lonnie Johnson alla chitarra e Roosevelt Sykes al piano. Tutti musicisti che influenzeranno tantissimo il giovane Dylan. Ben presto, e soprattutto grazie a quell’incisione, il giovane Bob diventerà uno degli armonicisti più richiesti nel giro del folk blues newyorkese, tanto da procurarsi un posto proprio come armonicista nella band che suonava stabilmente in un altro locale di tendenza, il Café Wha?, dove si esibivano anche parecchi bluesmen.
Un’altra delle sue prime incisioni ufficiali avviene, sempre in qualità di armonicista blues, quando accompagna Harry Belafonte in una strepitosa versione di Midnight Special. È il 2 febbraio 1962 e il luogo sono i mitici studi della RCA. Il resto fa parte della storia della musica moderna e anche se Bob Dylan è diventato una vera e propria icona del rock, il blues è sempre stato un punto fermo in tutta la sua carriera artistica, influenzata in modo evidente dalla musica afroamericana. Sia sacra sia profana, se è vero che il primo grande successo di Dylan, Blowin’ In The Wind, è ispirato a un antichissimo spiritual che Dylan già cantava al Gaslight Café di New York nel 1962 e che si intitolava No More Auction Block, un’intensa canzone sulla tremenda condizione di schiavitù dei neri negli stati del sud. Il suo mitico album Highway 61 Revisited, così come i più recenti Time Out Of Mind, Love And Theft, Modern Times, Tell Tale Signs e Together Through Live, possono essere definiti senza tema di smentita dischi essenzialmente blues, almeno nell’accezione più ampia del termine.
Il blues gli ha sempre tenuto compagnia nei momenti più importanti della sua lunga carriera. Basti ricordare che quando nel luglio 1965 fece la famosa svolta elettrica al festival di Newport, Dylan si fece accompagnare da una blues band. Una delle migliori: la Paul Butterfield Blues Band, con la chitarra stupendamente blues di Mike Bloomfield. Non si può certo dimenticare l’impatto che ebbe quella sera la sua Maggie’s Farm, una canzone dedicata alla famigerata piantagione di cotone di Greenwood, Mississippi. Tantissime sono le canzoni di Dylan che hanno nel titolo la parola blues o nel testo riferimenti alla musica del diavolo.
Il famoso musicologo inglese Wilfrid Mellers ha scritto: “Tra le radici musicali di Dylan ci sono sicuramente gli hollers, quelle grida primitive e senza accompagnamento che gli schiavi intonavano nei campi di cotone, e i talkin’ blues che i neri cantavano sommessamente accompagnandosi con la chitarra. Tra i maestri di questo stile c’è Fred McDowell, che ha influenzato tanti musicisti, tra cui certamente Dylan”. A proposito di influenze, altri critici ed esperti hanno persino trovato echi di Skip James, il grande bluesman di Bentonia, Mississippi, divenuto famoso per le sue liriche malinconiche e crepuscolari, in un grande brano come Not Dark Yet. Lo stesso Mellers ha sostenuto che Dylan sia stato fortemente influenzato dal gospel ancora prima dei famosi album incisi durante il periodo della sua discussa conversione religiosa, lavori di grandissimo livello tra i quali spicca Slow Train Coming.
I testi e le musiche di Slow Train Coming, uscito nel 1979, sono colmi di riferimenti alla musica spirituale afroamericana. Nel ritornello della bellissima Precious Angel, in cui Dylan canta il verso: Shine your light, shine your light on me (Risplenda la tua luce su di me), sono evidentissime le influenze di due grandi brani spiritual come Let Your Light Shine On Me di Blind Willie Johnson, e Midnight Special di Huddie William Ledbetter, in arte Leadbelly. L’immagine dello slow train, il treno lento che porta in paradiso che dà il titolo all’album e che campeggia in copertina, arriva da molto, molto lontano. Dylan ne parlava già nelle note di copertina di Highway 61 Revisited del 1965. Il treno come metafora di salvezza, o come antico mezzo di trasporto che porta le anime al cospetto di Dio, ricorre in tantissimi spiritual e canti afroamericani. I più famosi di tutti sono sicuramente This Train, resa immortale dagli Staple Singers, e People Get Ready del grande Curtis Mayfield che con i suoi Impressions la incise nel 1965. Una canzone, quest’ultima, particolarmente cara a Dylan, se pensiamo che l’artista l’ha registrata per ben tre volte nella sua lunga carriera: nel bootleg A Tree With Roots – The Genuine Basement Tapes, nel disco promozionale Four Songs From Renaldo And Clara e per la colonna sonora del film Flashback.
Tra i brani che Dylan scrisse nel suo periodo religioso c’è anche l’intensa Trouble In Mind, che richiama sin dal titolo un blues inciso da tantissimi artisti e che Dylan ha probabilmente conosciuto attraverso le versioni di Sonny Terry, Brownie McGhee e Josh White. Ma anche in tempi recenti, dalle canzoni di Time Out Of Mind viene fuori il grande amore di Dylan per la musica spirituale afroamericana, un affetto ricambiato da tanti artisti gospel come Shirley Caesar, Fairfield Four, Chicago Mass Choir, Mighty Clouds Of Joy e Mavis Staples, e ben concretizzato nello splendido lavoro collettivo intitolato Gotta Serve Somebody: The Gospel Songs Of Bob Dylan.
Qualcuno, qualche anno fa, ha detto che non è difficile scovare nei testi e nelle musiche di Dylan anche tracce del sound di Robert Johnson e del suo maestro Son House che, insieme a Reverend Gary Davis, Dylan conobbe al Gaslight Café di New York nei primi anni Sessanta e con i quali ha sicuramente partecipato a una jam. Di Gary Davis, un musicista che Dylan definirà spesso “uno dei maghi della musica moderna”, avrà senz’altro ascoltato You Got To Move, della quale userà il canovaccio di tanto in tanto. Così come utilizzerà, sintetizzandoli nel superbo stile che lo contraddistingue, gli stilemi musicali dei già citati Mississippi Fred McDowell e Robert Johnson.
Nella sua autobiografia, Chronicles, Dylan ricorda con parole semplici ma coinvolgenti il suo incontro quasi fortuito con la musica di Robert Johnson. John Hammond, talent scout della Columbia Records, un giorno gli diede un paio di dischi da ascoltare. Uno era King Of The Delta Blues Singers, di Robert Johnson. Dylan non solo nonl’aveva mai ascoltato, ma non ne aveva mai sentito neanche il nome. Hammond gli disse di ascoltarlo attentamente perché quello era un musicista che gli avrebbe sconvolto la vita. Sulla copertina c’era un dipinto piuttosto insolito di un uomo concentrato a cantare e a suonare la chitarra, che veniva inquadrato dall’alto. Un’immagine potente ed evocativa come al giovane Bob non era mai capitato di vedere. Dylan ricorda che guardava quella copertina quasi incantato. Di una cosa era certo: chiunque fosse il bluesman raffigurato in quel dipinto, lo aveva già conquistato.
Hammond gli confidò che aveva conosciuto Johnson parecchi anni prima e che voleva farlo venire a New York per partecipare al famoso spettacolo Spirituals To Swing, ma quando l’aveva cercato giù in Mississippi, aveva scoperto che era stato ucciso in circostanze misteriose. Robert Johnson aveva registrato solo un pugno di brani e la Columbia stava per ripubblicarne una scelta. Quella che Dylan aveva tra le mani era una copia non ancora in commercio. Dylan continua nel suo racconto ricordando che corse subito a casa del suo amico Dave Van Ronk per chiedergli se, almeno lui che masticava blues da tanto tempo, avesse mai sentito parlare di Robert Johnson. Dave gli disse di no e allora il giovane Bob mise sul piatto del giradischi il pesante acetato promozionale. Dylan scrive che sin dalla primissima nota le vibrazioni che uscirono dai coni delle casse gli fecero rizzare i capelli in testa e che quando Johnson incominciò a cantare rimase senza fiato.
Dylan capì subito quale fosse la differenza tra Johnson e chiunque altro avesse ascoltato sino ad allora. I suoi brani non erano solo dei blues, ma veri e propri capolavori. Erano perfetti. Le sue canzoni avevano parole stupefacenti nella loro semplicità e ogni strofa legava perfettamente con la successiva. Tutto era straordinariamente fluido e scorrevole. Dylan scrive che al primo ascolto le canzoni volavano via veloci, troppo veloci per poterne afferrare appieno il significato, ma che poi, a poco a poco, tutta la gamma espressiva delle storie cantate da Johnson veniva fuori in maniera prepotente. In quel momento le sue storie amare e pungenti diventavano davvero le storie di tutti. Il fuoco espresso da un’intera umanità dolente sembrava emergere dai solchi di quel pesante acetato che girava sul piatto in continuazione. La voce e la chitarra di Johnson risuonavano per tutta la casa e Dylan si sentiva completamente immerso in brani come Kindhearted Woman Blues, Traveling Riverside Blues e Come On In My Kitchen. Non potevache essere così.
Il suo amico Dave però non condivideva il suo entusiasmo. Ripetutamente gli fece notare che Robert Johnson non era molto originale: le sue canzoni sembravano la replica di qualche vecchio blues già sentito. Dylan gli disse che per lui era esattamente il contrario. Credeva fermamente nell’assoluta originalità di Johnson che lui considerava un artista unico e inimitabile. Dave gli fece sentire i dischi di Leroy Carr, Skip James e Henry “Ragtime” Thomas, chiedendogli: “Capisci adesso?”. Dylan capiva, eccome. Ma sapeva anche che il suo eroe Woody Guthrie aveva preso le arie e le parole delle vecchie canzoni della Carter Family e le aveva trasformate, con il suo stile, in canzoni nuove e per certi versi inedite. Era una cosa che nella musica folk facevano tutti. Da migliaia di anni. Il blues altro non era che la musica folk degli afroamericani.
Quella sera Dylan nel suo appartamento mise di nuovo il disco sul piatto per ascoltarlo in completa solitudine. Non voleva più condividerlo con nessuno. Nelle settimane successive lo suonò in continuazione, ritrovandosi a fissare il giradischi come se una pallottola di sedativo lo avesse colpito a bruciapelo. Ogni volta che ascoltò quel disco ebbe l’impressione che un oscuro fantasma fosse entrato nella sua stanza per dirgli qualcosa. Dylan sapeva però che il vero mistero stava tutto in quelle prodigiose canzoni, costruite facendo uso di una strabiliante economia poetica. A Robert Johnson bastavano pochi versi per catturare l’anima di chi lo ascoltava. Dylan ebbe spesso una sensazione quasi indescrivibile, come se quei pezzi fossero stati pensati ed eseguiti non da un uomo solo, ma da tanti artisti diversi. Si concentrò per giorni su ogni brano chiedendosi spesso come avesse fatto Robert Johnson a scrivere canzoni così semplici e allo stesso tempo raffinate. I brani sembravano nascergli direttamente nella bocca e non nella testa. Sembrava quasi che quelle parole Johnson le inventasse nello stesso momento in cui le proferiva. Ed erano parole che facevano vibrare il sistema nervoso come la corda di un pianoforte. Quelle canzoni erano quasi elementari per quanto riguarda il loro significato, eppure rivelavano appieno tutte le emozioni contenute nell’animo umano. Johnson andava dritto all’obiettivo. Al contrario di altri bluesmen non perdeva tempo in descrizioni superflue. Tutto sembrava così vero, spontaneo e reale. Eppure non c’era garanzia che una qualsiasi delle storie da lui raccontate fosse mai accaduta per davvero: la forza di Robert Johnson sta tutta nel mistero dei versi delle sue canzoni. Dylan, nella sua autobiografia, ci rivela che quando ascoltava Robert Johnson cantare di ghiaccioli che pendevano dagli alberi gli venivano davvero i brividi, come se fosse stato fuori, al freddo, nel gelido inverno del Minnesota. Oppure che quando ascoltava Johnson cantare del latte andato a male veniva assalito da un’autentica nausea. Dylan scrive sorpreso di non avere, ancora oggi, la benché minima idea di come il grande bluesman riuscisse a trasmettergli quelle sensazioni, quasi fisiche. Sebbene le canzoni di Johnson fossero assolutamente personali, nei suoi versi, lui, giovane figlio del Midwest, riusciva a identificarsi senza alcuna difficoltà. Continuando a descriverci il suo fatidico incontro con le canzoni di Johnson, Dylan racconta che c’era una canzone che lo aveva colpito più di altre, una canzone che riguarda la pesca intitolata Dead Shrimp Blues, una composizione per certi versi malata, con parole che sembrano scritte con il sangue. Un’altra gli piaceva particolarmente: un brano su quel macinino di auto chiamata Terraplane. Dylan scrive che secondo lui è sicuramente la più grande canzone che sia mai stata scritta su un’automobile, aggiungendo poi che anche a chi non avesse mai visto quel modello di macchina sarebbe bastato ascoltare la canzone e subito se la sarebbe immaginata con la sua carrozzeria tutta curve e la forma di un proiettile. Dylan ci racconta anche di aver trascritto le canzoni di Johnson su dei foglietti per studiarne meglio le parole. Era affascinato dalla costruzione dei versi e da quel modo straordinario di usare parole e immagini simboliche in completa libertà.
Sicuramente l’ascolto della musica blues, ma in particolare di Robert Johnson, segnerà un’importante tappa nel cammino musicale di Dylan, che nelle canzoni di Johnson troverà ispirazione durante tutta la sua lunga carriera. Già nel gennaio 1962 scriveva Standing On The Highway, un blues che non ha mai inciso, almeno ufficialmente, mache nella sua stesura non può non ricordare Cross Road Blues, uno dei brani più celebri del grande bluesman scomparso prematuramente e in circostanze misteriose a soli ventisette anni. Sempre del 1962 è anche Poor Boy Blues ispirata sicuramente ai brani omonimi di Henry “Ragtime” Thomas e Jazz Gillum. Una canzone che Dylan riprenderà, seppur con qualche modifica, anche in tempi recenti.
Parlando di poor people, di povera gente, non bisogna dimenticare che le tragiche vicende del popolo afroamericano sono state spesso protagoniste delle sue canzoni. Le tremende storie di razzismo di cui sono stati vittime sacrificali gli afroamericani furono descritte da Dylan, in una canzone, come the foam of a Jim Crow southern sea (la schiuma di un mare del sud di Jim Crow), con una chiara allusione alle leggi sulla discriminazione razziale denominate Jim Crow dal nome di un personaggio comico infaustamente creato nel 1830 dall’attore di minstrel show Daddy Rice, che si presentava in scena con la faccia dipinta di nerofumo. La canzone che contiene quel verso è The Death Of Emmett Till, un brano la cui musica ricorda The House Of The Rising Sun e in cui si narra di un tragico fatto avvenuto nell’agosto1955.
Emmett Till, un ragazzo nero di quattordici anni che abitava a Chicago, andò a trovare dei parenti a Money, un piccolo paesino del Mississippi. Lì sembra che il ragazzo abbia sciaguratamente fischiato all’indirizzo di una donna bianca particolarmente attraente. Lei si chiamava Carolyn Bryant e gestiva un piccolo emporio. Non appena il marito della donna venne a conoscenza del fatto, con l’aiuto del suo fratellastro catturò il ragazzo che per tre giorni fu picchiato e torturato a morte. Il suo corpo fu ritrovato nel Tallahatchie River talmente martoriato che fu possibile identificarlo solo grazie a un anello che portava. I fratelli furono arrestati ma alla fine del processo, nonostante pesanti prove a loro carico, vennero prosciolti. Addirittura, qualche mese dopo, i due confessarono con malcelato orgoglio il loro crimine a un giornalista in cambio di soldi. Anche in quell’occasione nessuno mosse un dito. La canzone venne registrata nel 1963 per la Folkways con lo pseudonimo di Blind Boy Grunt. Nelle stesse sedute di registrazione Dylan incise anche Train ATravelin’. In questa canzone il treno a cui Dylan fa riferimento simboleggia il razzismo che in quegli anni regnava sovrano, soprattutto negli stati del sud. Nella canzone, quando si parla di autobus bruciati, Dylan si riferisce sicuramente ai tragici fatti che si svolsero vicino ad Anniston, Alabama. Era il 14 maggio 1961 quando una folla inferocita diede fuoco a un autobus sul quale si trovavano i famosi Freedom Riders, ragazzi bianchi e neri che durante la dura lotta per i diritti civili viaggiavano tutti insieme sullo stesso autobus per sfidare le leggi razziali in vigore in quegli anni, che li avrebbero voluti separati.
Nello stesso periodo Dylan scrisse e incise diverse canzoni in omaggio ai vecchi bluesmen da lui ammirati. Canzoni come Quit Your Low Down Ways, scritta su un canovaccio gospel e nelle cui parole si trovano riferimenti a brani di Kokomo Arnold, Big Joe Williams, Robert Johnson e Blind Boy Fuller. O come Baby, I’m In The Mood For You che, secondo le parole dello stesso Dylan, è ispirata a San Francisco Bay Blues dell’indimenticabile Jesse Fuller e il cui titolo ricorda unacelebre canzone di John Lee Hooker che Dylan registrerà con The Band qualche anno più tardi.
Nel suo album più famoso del periodo folk, ovvero The Freewheelin’ Bob Dylan, del 1963, c’è Down The Highway, un Delta blues fatto e finito. Nello stesso disco compare Oxford Town, un’altra canzone dedicata alla lotta per i diritti civili degli afroamericani che tratta di una vicenda che fece parecchio scalpore quando avvenne. Nel giugno del 1962 James Meredith fu il primo studente nero a iscriversi all’università di Oxford, Mississippi. Il governatore dello stato fece di tutto per impedire a Meredith l’accesso al campus, tanto che lo studente dovette essere scortato all’interno dell’università da un folto gruppo di agenti federali inviati dal presidente Kennedy. Forti dell’appoggio delle autorità locali, con il governatore Barnett in testa, gli studenti bianchi inscenarono proteste e attaccarono i federali. I disordini causarono due morti e un numero imprecisato di feriti. A quel punto Kennedy dovette inviare ventitremila soldati della guardia nazionale per riportare l’ordine nella piccola cittadina del Mississippi.
A riconferma del suo grande amore per il blues, sempre in quell’album Dylan incise Corrina Corrina, un traditional suonato da tanti bluesmen che lo stesso Dylan ha affermato di aver imparato da Bo Carter dei Mississippi Sheiks e da Lonnie Johnson. Una strofa di questo brano rimanda a Stones In My Passway di Robert Johnson. Sempre in The Freewheelin’ Bob Dylan c’è Honey, Just Allow Me One More Chance, una canzone sicuramente ispirata all’omonimo branodel cantastorie blues Henry “Ragtime” Thomas. In quel periodo Dylan incide, ma non pubblica, Watcha Gonna Do?, un brano basato sul famoso spiritual When Death Comes Creeping In Your Room, inciso da tanti grandi tra cui il bluesman texano Mance Lipscomb e i leggendari Staple Singers, e su un altro spiritual di grande forza come You’re Gonna Need Somebody On Your Bond dell’immenso Blind Willie Johnson.
Tante, come abbiamo in parte già visto, sono le storie cantate da Dylan che riguardano le tragiche vicende che hanno spesso accompagnato gli afroamericani nel lungo cammino dalla schiavitù alla libertà. Vicende da brivido che Dylan ha voluto e saputo raccontare con maestria attraverso le sue canzoni. Canzoni come Only A Pawn In Their Game, che l’artista incide nel 1963 per l’album The Times They Are AChangin’ che uscirà l’anno seguente. Nel brano si racconta latriste storia di un attivista del movimento per i diritti civili dei neri, Medgar Wiley Evers, freddato nel giugno 1963 davanti alla porta di casa a Jackson, Mississippi, da un colpo di fucile sparato da un cespuglio. La comunità afroamericana della città scese subito in strada per protestare contro la barbara uccisone, organizzando una serie di manifestazioni che culminarono in duri scontri con la polizia e diversi arresti. Qualche giorno dopo, ai funerali di Evers, i leader del movimento per i diritti civili gridarono dal pulpito della chiesa che a mettere l’arma nelle mani dell’assassino era stato l’intero sistema politico americano. Sicuramente queste parole colpirono molto Dylan visto che nella canzone l’uccisore viene descritto proprio come una pura pedina nel gioco del potere. Il giovane cantautore cantò questa canzone il 28 agosto 1963 a Washington, poco prima che Martin Luther King pronunciasse il suo famoso discorso I have a dream davanti al Lincoln Memorial. La polizia, forse anche per placare in qualche modo la rivolta seguita all’uccisione di Evers, si diede da fare e una decina di giorni dopo l’omicidio arrestò un certo Byron De La Beckwith, noto razzista locale. Il processo, tra cavilli legali e controverse sentenze di assoluzione, durò più di trent’anni e il criminale filonazista, benestante e con parecchi appoggi politici, venne condannato all’ergastolo solo nel 1994. Morì in carcere qualche anno più tardi.
Un’altra tragica storia raccontata da Dylan con lucida indignazione è descritta in The Lonesome Death Of Hattie Carroll. Era l’agosto del 1963 e Dylan era appena tornato a New York dopo la manifestazione per i diritti civili di Washington, quando lesse sul New York Times della conclusione del processo per l’assurda morte di Hattie Carroll. La donna, una cameriera afroamericana madre di undici figli, venne uccisa a bastonate a Baltimora durante una festa di beneficenza in un hotel, dal proprietario di una piantagione di tabacco completamente ubriaco che prima la insultò coprendola di improperi razzisti e poi la colpì ripetutamente. Hattie Carroll aveva cinquantun’anni e soffriva di pressione alta e problemi cardiaci. Morì la mattina seguente, probabilmente a causa di un’emorragia cerebrale sopravvenuta durante la notte. Inizialmente William Devereux Zantzinger, il responsabile dell’insano gesto, venne accusato di omicidio volontario, ma poi i suoi avvocati riuscirono a convincere la corte che la morte di Hattie non poteva essere imputata unicamente ai colpi ricevuti. Così i giudici ridussero l’imputazione a semplice omicidio preterintenzionale e condannarono Zantzinger a poco più di seiecento dollari di multa e a sei mesi di prigione. Una storia di sopraffazione e razzismo che sembra quella di tanti bluesmen, una storia che mette i brividi a chi la racconta.
In quegli anni Dylan comincia anche a incidere canzoni accompagnandosi con il pianoforte, che suona ispirandosi a due grandi del piano blues e boogie woogie come Cow Cow Davenport, Meade “Lux” Lewis e Fats Domino. In Highway 61 Revisited, un album elettrico uscito nell’agosto del 1965 e destinato a cambiare il corso della musica moderna, Dylan omaggia il blues fin dal titolo dell’intero lavoro, citando la famosa strada del blues che, nell’immaginario collettivo, parte dal centro di Chicago per arrivare a New Orleans passando per Memphis e il delta del Mississippi. In realtà, la Highway 61 non inizia a Chicago, ma, fino al 1991, iniziava a sud di Thunder Bay nell’Ontario. Passava anche per Duluth, Minnesota, città natale di Dylan.
Nell’album è contenuta una delle sue canzoni più famose: Like A Rolling Stone, che, a sua volta, sin dal titolo, ha un fortissimo riferimento al linguaggio del blues e della musica nera. Nella lingua del blues essere un rolling stone, un sasso che rotola, significava essere un vagabondo che si spostava da un capo all’altro del paese, lasciando dietro di sé decine di cuori infranti. Un bluesman, insomma. A confortarci sul significato del termine ci sono le celebri Rollin’ Stone, che Muddy Waters scrisse nel 1950, e Papa Was A Rolling Stone, portata al successo dai Temptations nei primi anni Settanta. Fu al brano di Muddy Waters che i Rolling Stones pensarono quando si trattò di trovare il nome giusto per la band. I lettori dell’omonima rivista, che a sua volta ha preso il nome da questo brano, ovvero Rolling Stone, nel 2004 hanno indicato la famosissima composizione di Dylan come la più bella canzone di tutti i tempi. Nell’album che la contiene, il blues regna sovrano. Come in Tombstone Blues, che ha un titolo identico a quello di una canzone che Lonnie Johnson scrisse nel 1927 e un ritornello che a molti ha ricordato quello inciso dal grande Leroy Carr nella sua Papa’s On The House Top. In una delle ultime strofe Dylan fa anche il nome della madre di tutte le cantanti blues, l’immensa Ma Rainey.
In un’altra canzone di Highway 61 Revisited, It Takes A Lot To Laugh,
It Takes A Train To Cry i versi in cui Dylan paragona la bellezza del sole al tramonto e della luna che si intravede tra gli alberi a quella di una donna (Don’t the moon look good, mama, shinin’ through the trees? e Don’t the sun look good, goin’ down over the sea?), non possono che essere unomaggio a un accostamento che compare in tante celebri composizioni, come Milk Cow Blues di Kokomo Arnold e Poor Me di Charley Patton. Ma è l’intero brano a essere permeato di riferimenti blues che rimandano a Robert Johnson e a Elmore James. Per ciò che concerne la canzone che dà il titolo all’album, vale a dire Highway 61 Revisited, ci sono tantissimi brani blues intitolati con il nome della mitica strada. Tra i più conosciuti spiccano senz’altro quello scritto dal pianista Roosevelt Sykes e quello inciso a Memphis da Charlie Pickett nel 1937.
Anche il disco successivo, Blonde On Blonde, capolavoro del 1966, contiene alcuni testi di ispirazione blues. Come Pledging My Time, che in qualche verso sembra ispirarsi a Come On In My Kitchen di Robert Johnson, ma anche a brani di Skip James, Blind Willie McTell e Sleepy John Estes, straordinario bluesman di Brownsville, Tennessee. In Temporary Like Achilles ci sono diversi doppi sensi a carattere sessuale ricavati direttamente dallo slang afroamericano.
Anche quando nel 1969 va a registrare a Nashville, la patria della country music, Dylan non dimentica le parole del blues. In uno dei più famosi brani dell’album, Lay, Lady, Lay, nel verso in cui canta Lay across my big brass bed (Stenditi sul mio gran letto d’ottone) Dylan usale stesse parole che Ruth Willis cantava, accompagnata dalla chitarra di Blind Willie McTell, nella sua Rough Alley Blues, incisa nel 1931. La stessa frase, più o meno, si ritrova in Jelly, Jelly Blues, incisa da Billy Eckstine e Earl Hines, segno evidente che la voglia di usare la lingua del blues, con le sue espressioni colorite e piccanti è, in qualche modo, contagiosa.
Nel famoso The Basement Tapes, che Dylan registrò nel 1967 con The Band a Woodstock nella leggendaria Big pink, la casa rosa in cui abitavano alcuni componenti del gruppo, sono tantissime le composizioni che girano intorno al blues. Per esempio Down In The Flood, una canzone originariamente intitolata Crash On The Levee in cui si fa riferimento alla tragica inondazione del Mississippi del 1927. Per comporre questo brano, ma anche altri più recenti, Dylan si è probabilmente ispirato ai tanti brani scritti sull’argomento e portati al successo da artisti del calibro di Bessie Smith, Charley Patton, Blind Lemon Jefferson, Memphis Minnie, Lonnie Johnson e John Lee Hooker. A proposito di Hooker, nei bootleg usciti qualche anno più tardi, scopriremo che in quelle registrazioni in cantina Dylan rende omaggio più volte al grande bluesman di Detroit cantando Tupelo e I’m In The Mood, due brani usciti proprio dalla penna di Hooker. Anche in Long Distance Operator, che nelle registrazioni è cantata dal pianista di TheBand, Richard Manuel, il riferimento al blues è chiaro sin dal titolo che è quello di un famoso brano che Little Milton incise nel 1959.
Anche Levon Helm, Robbie Robertson, Rick Danko, Garth Hudson e Richard Manuel, i cinque leggendari componenti di The Band, avevano un feeling particolare con il blues. Questo in Basement Tapes viene fuori con sentiti omaggi alla musica afroamericana che fa da base alle lunghe jam session di Dylan e del gruppo e dà vita a interessanti versioni di Down On Me, un vecchio spiritual portato poi al successo da Janis Joplin, e di People Get Ready dell’indimenticabile Curtis Mayfield. Inoltre da quei mitici nastri registrati da Dylan durante la convalescenza dal suo famoso incidente motociclistico uscirà uno dei più bei brani che il grande cantautore abbia mai scritto: I Shall Be Released, una canzone che ha le proprie fondamenta nel grande libro delgospel afroamericano.
Le numerose collaborazioni di Dylan con i grandi della musica nera sono testimoniate anche dalla foto che compare sul retro di copertina di New Morning, del 1970, in cui è ritratto in compagnia di Victoria Spivey, la celebre cantante con cui aveva collaborato a inizio carriera. Nel suo album Street Legal, uscito nel 1978, con la canzone New Pony rende omaggio sin dal titolo ai padri del Delta blues che tantol’hanno ispirato. Il brano proviene sicuramente da una sintesi di Pony Blues di Charley Patton, My Grey Pony di Big Joe Williams e Black Pony Blues di Arthur “Big Boy” Crudup. Che il nome del pony protagonista della canzone sia Lucifer non fa altro che alimentare le leggende demoniache che girano intorno al blues. Da notare che nella canzone c’è uno splendido coro gospel che canta: How Much Longer?, quasi a sottolineare ancora una volta la tensione tra peccato e salvezza nel secolare contrasto tra blues e musica religiosa. Sempre in Street Legal c’è Baby Stop Crying, che rimanda a Stop Crying, incisa da Sonny Boy Williamson II nel 1951. A proposito di Sonny Boy, nello stesso album è contenuta Is Your Love In Vain? che si ispira a All My Love In Vain, un brano che il grandissimo armonicista registrò nel lontano1955.
Naturalmente il titolo di questa canzone fa venire in mente anche un altro celeberrimo pezzo, l’immortale Love In Vain di Robert Johnson, divenuto famosissimo nella versione dei Rolling Stones. Nello stesso album è contenuta anche Where Are You Tonight? (Journey Through Dark Heat), in cui l’espressione the juice running down my leg (ilsucco che mi cola giù per la gamba), non solo è carica di significati sessuali, ma è presa da Traveling Riverside Blues di Robert Johnson. Nel disco Shot Of Love del 1981, nel brano che dà il titolo all’album Dylan fa riferimento alla turpentine (la trementina) che veniva bevuta come liquore da molti bluesmen durante l’epoca del Proibizionismo. Sull’argomento Tampa Red incise uno dei suoi blues più famosi nel 1932.
Nello stesso periodo Dylan scrisse Let’s Keep It Between Us, che richiama Ain’t Nobody’s Business, un brano inciso da centinaia di artisti blues e non solo, tra cui Bessie Smith, che la registrò per prima, Billie Holiday, Jimmy Whiterspoon, Otis Spann, Ruth Brown e B.B. King, Mississippi John Hurt, Freddie King, Ike & Tina Turner, Etta James, Eric Clapton e persino Willie Nelson.
Nell’album Infidels del 1983 c’è una canzone, Man Of Peace, nella quale compaiono diversi animali mitologici tra cui il crawling king snake, il gigantesco serpente tentatore della Bibbia protagonista ditantissime canzoni e cantato da celebri bluesmen come John Lee Hooker e Big Joe Williams. Nello stesso disco c’è Union Sundown che sembra collegata più o meno direttamente a un brano di Sleepy John Estes, Time Is Drawing Near, uno dei pochi blues di protesta sociale mai incisi e dedicato all’inesorabile declino del sindacato.
Nello stesso anno Dylan incide Blind Willie McTell, commovente omaggio a uno dei suoi bluesmen prediletti. Un grande artista per cui Dylan ha scritto la frase che tutti i bluesmen vorrebbero scolpita sulla propria lapide: No one can sing the blues like Blind Willie McTell (Nessuno sa suonare il blues come Blind Willie McTell). Un brano bellissimo e reso celebre da The Band. Prendendo spunto dal traditional afroamericano St. James Infirmary, Dylan costruisce per il suo eroe una canzone lirica e intensa. William Samuel McTier, in arte Blind Willie McTell, nato in Georgia agli albori del Novecento, è stato non solo un grande e importante bluesman ma anche un valente songster, vale a dire un proficuo esecutore di ballate narrative, musica tradizionale da ballo e spiritual. In Blind Willie McTell Dylan fa un efficace paragone tra Gerusalemme e New Orleans e tra la schiavitù degli ebrei in terra d’Egitto narrata dalla Bibbia e quella dei neri negli stati del sud. Nella prima strofa the arrow on the doorpost (la freccia tracciata sulla porta) rimanda a uno dei tanti segni convenzionali della cosiddetta underground railroad, la rete di contatti segreti utilizzata nel XIX secolo dagli schiavi in fuga. Il segno sulla porta era il segnale che gli schiavi in fuga dalle piantagioni del sud lasciavano a chi veniva dopo di loro, indicando in questo modo che quella era una casa sicura, dove avrebbero potuto trovare riparo durante la disperata fuga verso gli stati del nord. Ma la canzone contiene anche altri riferimenti al mondo afroamericano e ai suoi spettacoli, per esempio le tende smontate di cui Dylan canta nella seconda strofa (They were taking down the tents) e che sono quasi sicuramente un riferimento ai minstrel show itineranti dei quali Blind Willie McTell aveva spesso fatto parte.
Il titolo di Knocked Out Loaded, un album che Dylan fa uscire nel 1986, sembra provenire direttamente dalla lingua del blues e più precisamente da un verso di Junko Partner (The poor man was knocked out, knocked out and loaded), celebre brano degli anni Cinquanta appartenente al repertorio di tanti artisti di New Orleans come Professor Longhair, James Booker, Dr. John e Dirty Dozen Brass Band. Una composizione che forse Dylan aveva ascoltato dall’amico Mike Bloomfield. Junko partner nel linguaggio degli afroamericani significa tossicomane e l’espressione specifica knocked out loaded si usa per definire qualcuno che è drogato fino al midollo.
Nell’album successivo, il controverso Down In The Groove del 1988, Dylan inserisce una canzone, Had A Dream About You, Baby, in cui c’è un verso, Last night you come arollin’ across my mind (La notte scorsa mi hai attraversato la mente), che riecheggia il verso Rollin’ across my mind cantato da Skip James nell’affascinante 4 O’Clock Blues.
Nel brano Cat’s In The Well, inciso in Under The Red Sky del 1990, in un verso, He got his big bushy tail dragging all over the ground (Striscia la sua grossa coda tutt’intorno) Dylan sembra citare Tail Dragger, famoso brano di Howlin’ Wolf in cui il bluesman si vanta di essere uno che riesce a far perdere le sue tracce come se avesse una coda che, strisciando per terra, le cancella al suo passaggio. Magari per sfuggire a un marito geloso, verrebbe da aggiungere.
L’album Time Out Of Mind, premiato come disco dell’anno nel 1997, conteneva più di una canzone con riferimenti espliciti alla lingua del blues. Come Dirt Road Blues, un brano che deve molto alle quasi omonime canzoni di Charley Patton, Arthur “Big Boy” Crudup e Howlin’ Wolf. Per ammissione indiretta di Dylan il riff su cui è basata la composizione deriva molto probabilmente da K.C. Moan della leggendaria Memphis Jug Band di Will Shade.
Come altre canzoni di Time Out Of Mind anche Standing In The Doorway è stata composta da Dylan ricorrendo a citazioni e rimandi allatradizione afroamericana, a partire dal titolo stesso della canzone che alcuni studiosi dicono provenire da Standing In My Doorway Crying incisa dalla cantante e chitarrista Jesse Mae Hemphill, originaria del Mississippi. Inoltre il verso in cui si parla di stelle color ciliegia (The stars have turned cherry red) sembra alludere al brano Cherry Red del celebre shouter Big Joe Turner e il midnight train citato nella canzone proviene sicuramente dal linguaggio carcerario nero in cui il treno di mezzanotte era sinonimo di fuga. In Million Miles, contenuta sempre in Time Out Of Mind, il verso I need your love so bad, turn your lamp down low (Ho bisogno del tuo amore, abbassa la luce della lampada) combina insieme i titoli di due brani blues piuttosto conosciuti: Need Your Love So Bad incisa da Little Willie John nella metà degli anni Cinquanta, e Turn Your Lamp Down Low del pianista e cantante di New Orleans Dave Bartholomew.
La stessa espressione compare anche in Statesboro Blues, un brano scritto da quello che sappiamo ormai essere uno dei bluesman preferiti da Dylan, Blind Willie McTell, e dedicato a una città della Georgia. Sempre in Million Miles Dylan non dimentica di citare il titolo del brano più famoso di un altro dei suoi artisti prediletti. Si tratta di That’s Alright, Mama di Arthur “Big Boy” Crudup, che nel 1954 diventerà il primo vero successo del giovane Elvis Presley. In un altro brano di Time Out Of Mind, Tryin’ To Get To Heaven – titolo foriero di rimembranze gospel –, il riferimento alle high muddy waters (acque piene di fango) sembra provenire da un vecchio brano del bluesman di Memphis Furry Lewis, protagonista, fra l’altro, di una bellissima canzone di Joni Mitchell. Nel brano è citato anche un verso che richiama la composizione gospel: I’ve been walking that lonesome valley (Sono passato per quella valle desolata). Infine nell’ultima strofa il verso Some trains don’t pull no gamblers, no midnight ramblers (Certi treni non fanno salire giocatori d’azzardo né nottambuli) arriva sicuramente dal già citato This Train, autentico caposaldo della tradizione spiritual.
Il treno di cui si parla nella musica spirituale afroamericana è un treno che porta direttamente in paradiso, e nel viaggio verso la gloria dei cieli non sono ammessi perdigiorno, avventurieri, vagabondi, giocatori d’azzardo, ipocriti e persone dal passato poco pulito. Un altro brano dello splendido Time Out Of Mind è Cold Irons Bound, che sin dal titolo ricorda la tragica storia degli afroamericani. Cold irons è infatti di solito riferito alle manette ai polsi di un arrestato, alle catene legate ai piedi degli schiavi o a coloro che, condannati ai lavori forzati, andavano a formare le tristemente celebri chain gang. Abbiamo visto tutti al cinema i prigionieri neri incatenati l’uno all’altro spaccare pietre o pulire il ciglio di una strada con le loro uniformi a strisce orizzontali bianche e nere. Nel periodo in cui i neri non erano più ufficialmente schiavi, potevano comunque essere arrestati per un nonnulla, secondo le dure leggi che regolavano la segregazione razziale. Non avevano i soldi per pagarsi un avvocato e la condanna consisteva spesso in un’intera stagione a lavorare in una piantagione senza ricevere nessuna paga. Poliziotti, giudici e padroni delle piantagioni del sud erano parte dello stesso iniquo sistema di ingiustizia. A pagarne il prezzo più alto era, come sempre, la popolazione di colore.
La stessa espressione, declinata questa volta in cold iron shackles (fredde manette di ferro) era stata usata dai Grateful Dead, grandi amici di Dylan, nella loro Tennessee Jed. Highlands, un’altra perla di Time Out Of Mind è, secondo le parole dello stesso Dylan, basata su un riff che arriva direttamente da Pony Blues di Charley Patton. Nel brano è anche citato lo spiritual Swing Low, Sweet Chariot, nella strofa in cui Dylan canta di Big white clouds, like chariots that swing down low (Grandi nuvole bianche che sembrano carretti barcollanti). Gli stessi del titolo dell’antico spiritual.
Love And Theft, un disco uscito in una data fatale per gli States, l’11settembre 2001, è considerato da molti uno dei dischi più blues dell’intera discografia dylaniana. E in effetti di riferimenti al blues e al suo linguaggio, in quest’album che vinse un Grammy come disco folk dell’anno, ce ne sono parecchi. A partire dal titolo, che gli esperti dicono essere ispirato a Love and Theft: Blackface Minstrelsy and the American Working Class, un saggio di Eric Lott pubblicato nel 1993 e riguardante la storia del fenomeno dei minstrel show, i famosi spettacoli itineranti che da inizio Ottocento giravano tutti gli States e in cui gli attori e i musicisti bianchi si dipingevano il viso di nerofumo, imitando la musica, il linguaggio e le danze del popolo afroamericano. Un furto culturale in piena regola, a danno come sempre dei neri. Un fatto purtroppo non raro nella storia dell’arte popolare nordamericana. Nello stesso disco è contenuta Mississippi, quasi una canzone manifesto dell’amore di Dylan per il blues in cui l’artista sembra omaggiare soprattutto il grande Furry Lewis e l’indimenticabile Mississippi Fred McDowell. Già dai primi versi si respira la lingua del blues che ben si esplicita più avanti: Only one thing I did wrong, stayed in Mississippi a day too long (Solo una cosa ho sbagliato, sono rimasto in Mississippi un giorno di troppo), in cui Dylan cita il testo di Rosie, un brano registrato negli anni Trenta da Alan Lomax nel famigerato carcere di Parchman Farm, nel profondo Mississippi. Nello stesso verso c’è anche un riferimento a una delle versioni di Gospel Plow, un antichissimo spiritual che Dylan cantava già agli inizi della sua carriera e che, con il titolo di Keep Your Eyes On The Prize e qualche modifica nel testo, entrò a far parte della colonna sonora di tante marce a sostegno della lotta per i diritti civili degli anni Sessanta. Dylan potrebbe aver imparato la nuova versione di Gospel Plow il 28 agosto del 1963 durante la famosa marcia su Washington quando, al fianco di Martin Luther King, accompagnò Len Chandler nell’intensa esecuzione di Keep Your Eyes On The Prize. Il riferimento comunque è confermatodallo stesso Dylan che, in un’intervista di qualche anno fa, ha dichiarato che la canzone Mississippi è, seppur in maniera indiretta, collegata alle lotte per i diritti civili degli afroamericani. Alessandro Carrera, nel libro Bob Dylan, Lyrics 19622001, ha ipotizzato che il titolo Mississippi sia in qualche modo ispirato a Mississippi Goddam, un brano che Nina Simone, un’artista che Dylan ha sempre ammirato, compose dopo l’attentato del 15 settembre 1963 in una chiesa di Birmingham, in Alabama, in cui persero la vita quattro giovani ragazze afroamericane per mano di alcuni membri del Ku Klux Klan. Summer Days, anch’essa contenuta in Love And Theft, ha un titolo che alcunistudiosi fanno risalire a un brano quasi omonimo di Charley Patton, Some Summer Day.
Anche Lonesome Day Blues, un’altra convincente song contenuta in Love And Theft, ha un titolo che richiama subito quello di un altro celebre blues che Blind Willie McTell, con lo pseudonimo di Hot Shot Willie, incise in compagnia della moglie Kate (meglio nota con il nome di Ruby Glaze) nel lontano 1932. Love And Theft contiene forse la dichiarazione d’amore più sentita da parte di Dylan al blues e a uno dei suoi padri indiscussi. Si tratta del brano High Water (For Charley Patton) il cui titolo è, in questo caso senza ombra di dubbio, ripresoda un famosissimo brano del bluesman, High Water Everywhere, inciso da Patton nel 1929. High water, che letteralmente significa acqua alta, è un’espressione che indica la piena di un fiume. La canzone, come la già citata Down In The Flood, si riferisce alla disastrosa inondazione che devastò il delta del Mississippi nel 1927. Le vittime furono tante soprattutto tra la povera gente di colore. La stessa cosa accadde purtroppo nel 2005 quando un’altra alluvione accompagnata da un uragano spaventoso spazzò via le abitazioni dei neri a New Orleans e dintorni. Nel brano c’è anche un’allusione alla compagna di Patton, Bertha Lee, che con il marito incise alcuni brani come Trouble ‘bout My Mother e il traditional Oh Death. In High Water sono citate due celebri cittadine del Mississippi dalle quali sono partiti tanti bluesmen in cerca di fortuna, vale a dire Clarksdale e Vicksburg. Da lì prese il treno diretto a Chicago o Detroit gente come Muddy Waters, John Lee Hooker e il leggendario mandolinista blues Johnny Young. Due città che soffrirono parecchio durante l’alluvione del 1927. In questo brano, che potremmo azzardarci a definire come il brano più blues di tutto il repertorio dylaniano, l’artista trova il modo di riferirsi anche al grande Robert Johnson. Nella settima strofa Dylan canta I’ll dust my broom, una frase idiomatica che fa parte del titolo di un brano famosissimo del mitico bluesman il cui significato è stato oggetto di tantissime ricerche e che compare in questo volume all’omonima voce. Di High Water è stato anche detto che la sua melodia sembra assomigliare parecchio a quella di Tupelo, una famosa canzone di John Lee Hooker che del resto Dylan ha suonato a Woodstock con The Band. Niente di strano, quindi, che Dylan si sia ispirato a Hooker, che ha sempre dichiarato essere uno dei suoi bluesmen prediletti.
Po’ boy, sempre in Love And Theft, è una canzone il cui svolgimento melodico ricorda invece, e piuttosto da vicino, quello di Cocaine Blues del reverendo Gary Davis. Il titolo fa riferimento a un appellativo piuttosto comune tra la povera gente di colore del sud e alla figura sola, disperata e vagabonda dell’hobo, leggendario protagonista di tante composizioni blues. In questo stesso album, Love And Theft, il brano Cry A While ha una certa somiglianza per quanto riguarda le tematiche trattate con Cry For Me Baby del grande chitarrista slide Elmore James, e quando nell’ultima strofa Dylan dice, rivolgendosi a una donna con la quale è evidentemente in rotta di collisione, Could be your funeral, my trial (Potrebbe essere il tuo funerale, il mio processo), altro non fa se non citare apertamente il titolo di una famosissima composizione del leggendario armonicista Sonny Boy Williamson II. Nella canzone che chiude Love And Theft, Sugar Baby, bellissima peraltro, i riferimenti di Dylan sono il grande songster texano Mance Lipscomb, Gary Davis e persino il celeberrimo inno gospel When The Saints Go Marchin’ In di cui l’artista ripete il verso che vedeprotagonista l’arcangelo Gabriele (Gabriel blows his horn), la cui tromba, secondo le Sacre Scritture, annuncerà il Giorno del Giudizio Universale. Un verso questo poco conosciuto ma significativo per indicarci quanto grandi siano la conoscenza e il rispetto che Dylan nutre per la musica afroamericana.
Anche in tempi più recenti nel suo Modern Times Dylan non ha mancato di citare le parole del blues. A partire dall’iniziale Thunder On A Mountain dove c’è un preciso riferimento a Milkcow’s Calf Blues diRobert Johnson, per arrivare poi a Spirit On The Water che in una strofa richiama Sugar Mama di Howlin’ Wolf. Rollin’ And Tumblin’, terzo brano del disco, arriva direttamente dal songbook del leggendario Muddy Waters che, a sua volta, si era ispirato sia a un brano di Robert Johnson, If I Had Possession Over Judgement Day, sia a Diving Duck Blues, un antichissimo traditional afroamericano reso celebre da Sleepy John Estes. Sempre in Rollin’ And Tumblin’ c’è un verso in cui Dylan invita la sua amata a nascondersi nei boschetti appena fuori Greenwood, Mississippi (Let’s go down to the greenwood glen). Boschi circondati da alberi maestosi dove Robert Johnson concepì il suo unico figlio e dove lui stesso riposa oggi. Johnson è, in qualche modo, presente anche nella successiva When The Deal Goes Down, il cui titolo sembra riferirsi a Last Fair Deal Gone Down, una delle ventinove canzoni lasciateci in eredità dal leggendario bluesman. Someday Baby, uno dei brani cardine di Modern Times, è la versione dylaniana di un classico del blues come Worried Life Blues che Big Maceo Merriweather incise il 24 giugno 1941. Una canzone che è diventata un vero e proprio classico e che è stata interpretata, magari con titoli diversi, da grandi artisti come Ray Charles, B.B. King, Muddy Waters, Eric Clapton, Little Walter, Bessie Smith, Otis Spann, Mississippi Fred McDowell, Leadbelly, Jimmy Reed, Chuck Berry, Junior Wells e Freddie King, solo per citarne alcuni. Tra l’altro sembra che lo stesso Big Maceo Merrweather si fosse ispirato a una canzone di Sleepy John Estes del 1935 che si intitola proprio Someday Baby e rispetto alla quale il testo di Dylan presenta diverse somiglianze. Sempre nello stesso album, Workingman’s Blues #2 ha un ritornello (Meet me at the bottom, don’t lag behind, bring me my boots and shoes) le cui parole arrivano direttamente da Meet Me Around The Corner di Big Joe Williams e un verso (I sleep in the kitchen with my feet in the hall) che sembra provenire da They’re Red Hot di Robert Johnson. Robert Johnson ha sicuramente ispirato anche un verso della successiva Nettie Moore, che prende il nome da quello di una gentile signorina già protagonista di una composizione del 1857. Quando nella canzone Dylan canta Blues this morning falling down like hail (La tristezza stamattina viene giù comegrandine) non si può fare a meno di pensare alle stesse parole che Robert Johnson incise nella sua Hellhound On My Trial. Alla fine della quinta strofa, inoltre, c’è un riferimento a un brano di Blind Lemon Jefferson particolarmente amato da Dylan, il già citato See That My Grave Is Kept Clean.
Quando, sempre in Nettie Moore, pronuncia la frase piuttosto criptica I’m going where the southern crosses the yellow dog (Andrò dove quello del sud incrocia il cane giallo), in realtà cita un incontro importantissimo nella storia del blues avvenuto a Tutwiler, Mississippi, dove nel 1903 W.C. Handy ascoltò per la prima volta quello che, qualche tempo dopo, verrà chiamato blues (vedi alla voce bottleneck).
Anche The Levee’s Gonna Break, è basata su un famoso blues: When The Levee Breaks, che Memphis Minnie incise nel 1929 immortalandoper sempre, in maniera lucida e icastica, la tragica alluvione del 1927, quando il Mississippi ruppe i suoi poderosi argini e sommerse tutto. Un tema che deve stare molto a cuore a Dylan, poiché, come si è visto, ha inciso, specialmente negli ultimi anni, parecchi brani sull’argomento.
Arrivati a questo punto, sono sicuro che non sembrerà più così strano trovare Dylan sulle pagine di un libro che tratta la lingua del blues. E, di conseguenza, non sembrerà strano il fatto che Dylan stesso abbia applaudito la scelta del regista Todd Haynes che, per interpretare un giovanissimo Bob Zimmerman nel film Io non sono qui, la sua quasi biografia cinematografica, ha ingaggiato un bravissimo ragazzo afroamericano, che nel film interpreta un giovane bluesman vagabondo, un hobo che, come Robert Johnson e come il bluesman di Tutwiler che cantava di incroci e cani gialli, viaggia attraverso l’America saltando da un treno merci all’altro in compagnia solo della sua chitarra. D’altronde, il blues e lo spiritual non sono forse le strutture di base per eccellenza sulle quali i grandi artisti costruiscono le canzoni per trasmetterci le loro emozioni?
Dylan non ha mai fatto nulla per nascondere le sue fonti d’ispirazione. Con esemplare correttezza ha sempre pagato il suo tributo al sound e ai musicisti che con le loro canzoni hanno contribuito a farlo diventare ciò che è. Solo pochi anni fa, nell’aprile 2004, in un’intervista di Robert Hilburn pubblicata sul Los Angeles Times, Dylan ribadiva: “Le mie canzoni sono basate su vecchi inni protestanti e su canzoni blues”. In Chronicles, il menestrello di Duluth racconta che durante il suo soggiorno a New Orleans per le registrazioni di Oh Mercy, alla fine degli anni Ottanta, nella sua casa di Audobon Place laradio della cucina era sempre accesa e sintonizzata sulla WWOZ, la grande stazione radio locale che trasmetteva soprattutto r&b, gospel rurale e il blues di Chicago, di Memphis e del Delta. Trasmetteva anche qualche brano di Texas blues, specialmente quello ruvido e genuino di Lightnin’ Hopkins. Nel libro Dylan racconta che ascoltava in particolare un programma che iniziava intorno a mezzanotte. Il dj che lo conduceva era una donna dalla voce che Dylan descrive come “piena, lenta, sognante”. Si faceva chiamare Brown Sugar e metteva dischi di Wynonie Harris, Roy Brown, Ivory Joe Hunter, Little Walter, Lightnin’ Hopkins, Chuck Willis e altri grandi della musica nera. Raccontandosi in maniera intima e sincera Dylan parla di come quella trasmissione radio gli tenesse compagnia durante le sue notti insonni. Confida che era bellissimo ascoltarla e aggiunge che, dovunque fosse quella stazione radio, lui avrebbe voluto essere lì, al fianco di Brown Sugar. Ascoltare quella trasmissione lo riportava ai tempi in cui era ragazzo e quando in casa c’era qualcosa che non andava per il verso giusto la radio sembrava guarire ogni tristezza. Come una persona cara che posandoti le mani sul capo ti faceva stare bene. Ascoltando il blues.
Sempre nella sua autobiografia Dylan racconta dei suoi primi amori musicali in maniera illuminante. Ci confida che sin da ragazzo era un grande appassionato di country blues. Tanto che una volta pensò che quella musica avesse sempre fatto parte di lui. Nelle canzoni di blues rurale, il giovane Dylan poteva sentire le radici della sua musica prediletta, quella suonata da Chuck Berry, Fats Domino, Little Richard, Muddy Waters e Howlin’ Wolf. Inoltre, visto che la Highway 61, la grande strada maestra del blues, iniziava proprio vicino a dove lui era nato e cresciuto, al giovane Bob sembrava di essere sempre stato legato al blues. In effetti, avrebbe davvero potuto partire da casa sua e andare dritto nel Delta, nel profondo sud. Le strade erano le stesse, strade di un’America rurale piena di contraddizioni, speranze e sogni, strade che attraversavano gli stessi paesini, grandi come la punta di uno spillo. Anche la gente che ci aveva vissuto e continuava a viverci era la stessa. Bianca o nera che fosse, era comunque la stessa gente. Persino il fiume Mississippi, la grande arteria del blues, ricorda Dylan, fa partire il suo corso proprio dai boschi vicino alla sua casa natale. Ecco perché non è mai stato lontano dal blues. Il blues era il suo posto nell’universo. Il blues era qualcosa che aveva sempre avuto la sensazione di avere nel sangue.
Ed ecco allora magistralmente spiegato dal cantante stesso, nella sua autobiografia, perché Dylan nella sua lunghissima carriera ha suonato più blues di alcuni artisti che vengono spesso etichettati come bluesmen ma che di blues, nel loro repertorio, ne hanno ben poco. È perché il blues scorre nelle sue vene. A osservare bene tutta la sua carriera, Dylan racchiude nel suo modo di essere artista l’essenza stessa del grande bluesman: un bluesman diventa grande quando è capace di condividere con il suo pubblico i sentimenti provati e le esperienze vissute. È un artista che non ha grandi risposte da dare ma sa suggerire, con grande abilità, quei percorsi dell’anima che trasformano la sofferenza in qualcosa di unico ed eccezionale, qualcosa che cambia in meglio la nostra persona e la nostra vita. Anche quando le sue canzoni hanno preso strade musicali apparentemente lontane dal blues, nella sublime poesia dei suoi testi Dylan ha sempre fatto largo uso della lingua del blues, attingendo a piene mani dal linguaggio cifrato e dalle tante espressioni usate dai bluesmen per comunicare in maniera sintetica ed efficace le loro esperienze di vita vissuta. Dylan, sin dagli inizi, si è accorto di quanto le parole della musica nera potessero essere preziose per creare un linguaggio unico e inimitabile. Per questo le ha sempre usate senza remore, affermando tranquillamente che non c’è nulla di male a inserire nelle proprie canzoni strofe o versi presi da vecchi spiritual o antichi blues. È una cosa che si fa spessissimo nel blues. Da sempre. Dylan è stato anche un grande armonicista blues, almeno all’inizio della sua carriera. Non tutti sono d’accordo ma, al di là di ogni commento tecnico sul suo modo di suonare l’armonica, non si può negare che grazie alla sua notorietà si sono avvicinati all’armonica e alla musica del diavolo tanti ragazzi che sarebbero poi diventati grandissimi musicisti blues. Una preziosa fonte di informazioni sugli inizi di Dylan come armonicista è ancora una volta la sua autobiografia. A Minneapolis non c’erano molti armonicisti. Uno però era bravo: Tony “Little Sun” Glover, che si esibiva spesso in coppia con Spider John Koerner, e suonava l’armonica blues nello stile di Sonny Terry e Little Walter. Anche Dylan suonava l’armonica, ma non ai livelli di Glover. Per suonarla usava un modello di reggi armonica che probabilmente in quegli anni era l’unico in circolazione. Almeno nel Midwest. Infatti era quasi impossibile trovarne uno, all’epoca, per cui per un po’ lo stesso Dylan aveva usato un appendiabiti in fil di ferro… che non era proprio il massimo. Quanto al modo di suonare l’armonica, Dylan confida che cercava di fare cose semplici e facili. Non sapeva suonare come Glover, e nemmeno ci provava; il suo modello era Woody Guthrie. Poi, tra l’ironico e il divertito, Dylan scrive che il modo di Glover di suonare l’armonica era molto apprezzato nei club della città. Tutti ne parlavano. Nessuno faceva, però, commenti sul suo stile. Dovette aspettare qualche anno per sentire un giudizio sul suo modo di suonare l’armonica. Dylan si trovava nella stanza d’albergo di John Lee Hooker a New York. Lì c’era anche Sonny Boy Williamson II, il leggendario armonicista, che dopo averlo sentito suonare gli disse: “Ragazzo mio, suoni troppo in fretta”. Non sapremo mai se Dylan fece tesoro di quel consiglio datogli da uno dei più grandi armonicisti blues di tutti tempi. Sappiamo invece che Dylan citerà spesso versi di canzoni di Sonny Boy nelle sue composizioni.
Forse il blues giaceva davvero sopito nel karma di Dylan sin da quando venne al mondo, visto che il mentore di Robert Johnson, l’uomo che gli insegnò tutto ciò che c’era da sapere sui segreti del blues, si chiamava Zinnerman. Quasi come Dylan, che all’anagrafe del suo paese era conosciuto come Robert Zimmerman.
Le suggestioni che da sempre circondano l’arte di Dylan si arricchiscono così di un nuovo tassello, ma il fascino della sua arte ritorna a nascondersi nelle pieghe delle sue splendide canzoni, proprio come è successo per Robert Johnson. Per vivere, noi comuni mortali, abbiamo bisogno di storie epiche e misteriose come quelle di figure mitiche quali Bob Dylan e Robert Johnson.
E qui il cerchio davvero si chiude.
Ma la leggenda, come è giusto, continua.
(dal libro di Fabrizio Poggi “Angeli Perduti del Mississippi. Storie e leggende del blues” – Odoya)
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