Mississippi Adventures – Il soffio della mia anima
di Fabrizio Poggi
Fa un caldo infernale ad agosto a Memphis e in Mississippi. Ci sono sempre cinquanta gradi all’ombra. Forse è per questo che li chiamano i “dog days of august”, perché in giro per le città non trovi nessuno, nemmeno un cane. Non trovi in giro neanche un’anima perché tutti sono appiccicati al ventilatore che pende dal soffitto o al bocchettone dell’aria condizionata. Unica salvezza e unico refrigerio una musica che spesso è stata dipinta come diabolica e sulfurea: il blues. Solo un pazzo può avventurarsi in quelle lande desolate in quei giorni “dannati”, solo chi come me è innamorato pazzo del blues e della terra che lo ha generato. Non ero ancora atterrato a Memphis che già mi risuonavano nelle orecchie le parole del mio eroe ed amico Charlie Musselwhite, il leggendario armonicista. “Il Delta è un mondo a parte nel sud degli States, anzi è addirittura qualcosa a se stante persino nello stato del Mississippi. E’ un posto dove faticosamente neri e bianchi hanno imparato a convivere pacificamente condividendo i momenti di gioia collettiva…Se sei una persona con la mente aperta e sensibile alle cose che ti circondano e ti capita di passare per il Delta, il blues ti cambierà per sempre…La musica di queste parti sembra venire fuori dalla terra dei campi e dalla polvere delle strade: il blues è negli alberi, nell’erba, nel modo in cui la gente cammina e parla, nelle cose che si mangiano, nell’aria che respiri…”. Queste le parole che il mio amico Charlie, originario del Mississippi, ha usato per descrivermi la sua terra d’origine quando qualche anno fa in occasione del mio primo viaggio, gli ho chiesto notizie sulla “terra del blues”. E aveva ragione. Quest’anno sono tornato in Mississippi con uno spirito diverso, sono tornato con la voglia di comunicare il mio modo di “sentire” il blues e non c’era altro da fare, anche se difficile ed emozionante al tempo stesso, che andarlo a suonare a Memphis e in Mississippi, là dove tutto è cominciato e dove sono nati coloro che hanno fatto del blues una musica universale: Robert Johnson, Muddy Waters, John Lee Hooker, Charlie Patton, Son House, B.B. King, Sonny Boy Williamson e tanti altri. Nulla di tutto ciò che mi è successo sarebbe stato possibile senza l’aiuto di amici preziosissimi che mi hanno aiutato: Ferdinando, Andrea, Antonio e Tony dell’Associazione Roots & Blues di Parma e Roger Stolle da Clarksdale, Mississippi; e senza due indispensabili e perfetti compagni di viaggio: mia moglie Angelina (che in Texas e in Louisiana è già un mito e presto lo diventerà anche in Mississippi) e Francesco Garolfi l’eccellente cantante e chitarrista con il quale suono da qualche tempo. Certo non è stato facile per me e Francesco suonare in posti dove sentivi davvero la storia del blues uscire dalle pareti ed entrarti nella pelle facendoti vibrare come la corda di una chitarra o come l’ancia di un’armonica. E non è stato per niente “easy” cantare il blues in qualche “juke joint” sperduto tra i campi di cotone in cui c’erano solo tre macchie bianche: Francesco, l’Angelina ed io. Eppure ce l’abbiamo fatta, siamo riusciti a trasmettere il nostro modo di “sentire il blues”. Angelina si commuoveva ogni volta che una signora afroamericana di una certa età veniva ad acquistare il disco e poi ringraziava me e Francesco per averla fatta emozionare. E’ vero che ho suonato spesso negli States e ancora più spesso “sono riuscito a vendere il ghiaccio agli eschimesi”, ma questa volta c’era qualcosa di diverso, qualcosa di più. Credevo davvero che Dio mi avesse fatto un grande dono quando mi ha permesso di suonare con Jerry Jeff Walker e Willie Nelson, due eroi della mia gioventù, ma non sapevo che aveva in serbo per me emozioni ancora più grandi seppure all’apparenza semplici e spontanee. Emozioni che solo il blues riesce a darti. E alla gente che non riusciva a spiegarsi come io e Francesco riuscissimo ad interpretare il blues in maniera così “autentica e credibile”, io raccontavo che questa è la magia del blues, una musica nata dalla sofferenza di un popolo ma capace di “parlare” all’anima di persone nate e cresciute in posti anche molto lontani fra loro. Il blues è davvero un “linguaggio universale” e forse il blues è l’unico villaggio globale possibile. E mi sono davvero sentito privilegiato a suonare il blues a Memphis e in Mississippi. Sempre, quando soffio nella mia armonica un blues o una canzone popolare, sento davvero che qualcuno più grande di me mi ha dato un grande dono: quello di toccare, a volte, l’anima delle persone. Sento che mi è stato dato il privilegio e la possibilità di toccare le corde più segrete delle persone, corde che stanno nel profondo della loro anima e che vengono mostrate solo in particolari occasioni, perché appartengono a qualcosa di molto intimo; corde che vibrano solo se si riesce a stabilire un contatto fatto di emozioni semplici e sincere. Ed è con questo stato d’animo che la mattina seguente al nostro arrivo abbiamo suonato “Crossroad blues” e “Diving duck blues” in televisione alla CBS di Memphis. E non ci eravamo ancora abituati al fuso orario che la stessa sera suonavamo al Center for Southern Folklore
ad un concerto organizzato dalla Blues Foundation, l’organizzazione mondiale che ha l’encomiabile obbiettivo di preservare, divulgare ed aiutare il blues e i suoi musicisti quando sono in difficoltà. Lì sono saliti a “jammare” con noi Johnny Holliday e Brad Webb, due musicisti piuttosto noti sulla scena blues di Memphis. “Restituiremo” loro il favore intervenendo il venerdì della settimana successiva ad una loro esibizione al leggendario Blues City Cafè di Beale Street, nel centro d Memphis.
Certo deve essere stato emozionante per Francesco alla sua “prima volta” in America vedersi riconosciuto al ristorante con la gente che ci diceva “Hey vi ho visto stamattina in TV. Mi siete piaciuti tantissimo! Ma davvero siete italiani?” Ma le sensazioni forti non erano finite per Francesco perché il giorno seguente con Capitan Angelina alla guida di una fiammante Chevrolet ci dirigevamo verso Clarksdale, Mississippi percorrendo la leggendaria Highway 61, forse la strada più celebrata in musica. E fa sempre un certo effetto arrivare a Clarksdale
passando davanti alla piantagione dove ha lavorato Muddy Waters o davanti al vecchio emporio che Charlie Musselwhite ha voluto mettere sulla copertina del suo “Delta Hardware”. Da lì sono partiti con la loro valigia di cartone tutti coloro che hanno fatto la storia del blues ed è lì che si volge quello che da molti è considerato come il blues festival più autentico d’America. Non ci sono grossi nomi al Sunflower Blues and Gospel Festival ma proprio lì sta il motivo del suo fascino: la gente lo ama perché in quei giorni il tempo sembra essersi fermato a quando il blues si suonava sotto le verande delle baracche in cui vivevano gli afroamericani. Una musica semplice per la gente semplice lontana dal clamore e dalle mille luci delle arene rock. E davvero non c’è stato quasi il tempo di seguire il festival perché il nostro calendario dei concerti era davvero fitto. Mercoledì 9 agosto abbiamo suonato al Walnut Street Blues Bar di Greenville, Mississippi,
la città che il grande Little Milton chiamava “casa” e giovedì 10 agosto siamo tornati a Clarksdale per intervenire musicalmente alla festa d’inaugurazione del festival che si teneva in una splendida villa coloniale (alla “Via Col vento”) di proprietà di Panny Mayfield una delle organizzatrici del Sunflower Festival. Lì quello che doveva essere un normale incontro con la stampa si è trasformato in una colossale jam session che ha visto Francesco ed il sottoscritto duettare con C.V. Veal (batterista per oltre vent’anni con Ike and Tina Turner), Wesley Jefferson e altri musicisti in una scatenata versione di “Dust my broom”.
Il tutto ripreso da una troupe televisiva californiana che dedicherà all’evento una delle puntate della famosa serie “On the road to America”. Il suonare insieme scambiandosi note musicali ed emozioni sublimi è davvero una grande prerogativa dell’America e quando i musicisti parlano la stessa lingua sonora ci si sente davvero di essere parte della “stessa famiglia” e il “jammare” diventa quindi una cosa spontanea e semplice che il pubblico apprezza enormemente. La gente si è davvero divertita quando a sorpresa al Delta Amusement Cafè di Clarksdale si sono uniti a noi il grande Bill “Howl’N’Madd” Perry e quel personaggio davvero notevole che è Bob “Mississippi Spoonman” Rowell ottimo cantante e suonatore di cucchiai “blues”.
Delta Amusement Cafè, Clarksdale, Mississippi. Da sinistra Bill “Howl’n’Madd” Perry, Fabrizio Poggi e Francesco Garolfi.
Questi bravissimi uomini di blues sono solo alcuni dei tanti eroi/amici che abbiamo incontrato in Mississippi. E ci siamo davvero immersi nella storia del blues quando abbiamo incontrato di nuovo gente come Dick Waterman leggendario fotografo e “scopritore” di leggendari musicisti dimenticati come Son House, Mississippi John Hurt e Mississippi Fred McDowell o Steve LaVere l’uomo che ha dedicato una intera vita a scoprire tutte le registrazioni e le mitiche due fotografie di Robert Johnson. Steve LaVere oggi è proprietario di un edificio nel centro di Greenwood, Mississippi,
non troppo distante dal luogo dove è sepolto il leggendario bluesman: il piano terra è un locale che si chiama “Blue Parrot” ed il piano di sopra è un museo dove sono custoditi cimeli che farebbero la felicità di ogni appassionato di blues. E lì c’è davvero da perderci la testa: dalle chitarre appartenute a famosissimi ed oscuri bluesmen, alle armoniche e alle lettere che scriveva alle sorelle Sonny Boy Williamson, a vecchi 78 giri che farebbero “impazzire” anche il più navigato dei collezionisti. Ho conosciuto Steve l’anno scorso quando ho donato al museo una copia del mio libro: “Il soffio dell’anima: armoniche e armonicisti blues” e quest’anno quando ha saputo che eravamo in giro per concerti ha voluto assolutamente che andassimo a suonare al Blue Parrot. Beh, farsi fare i complimenti da uno che di blues se ne intende e parecchio vi assicuro che avrebbe fatto vacillare anche l’uomo più freddo del mondo. Figuratevi cosa è successo a me che al cinema mi commuovo per un nonnulla. E Steve ci ha aperto gli armadi del suo museo mostrandoci cose che ancora nessuno ha visto e facendoci toccare i vecchi vinili di Robert Johnson, privilegio che come dice lui concede solo a chi conquista il suo cuore. E quanti racconti su come ha ritrovato le foto di Robert Johnson, sul caratteraccio di Harmonica Frank Floyd o sulla carriera di contrabbandiere di whiskey di Mississippi John Hurt. Steve LaVere ci ha rivelato che in verità esiste anche una terza foto di Robert Johnson. Si trova a Houston, Texas, dove viveva la sorella del mitico bluesman ma il proprietario non vuole per qualche “strano motivo” renderla nota. E pensare che tutto è partito da quella foto. Robert Johnson si trovava a Houston in visita alla sorella per salutare il nipote che partiva per il servizio militare. Per festeggiare l’evento zio e nipote, vestiti di tutto punto, andarono da un fotografo locale per farsi ritrarre insieme. Mentre erano lì la sorella propose a Robert di approfittare dell’occasione e di farsi fare una foto “professionale” con la chitarra. Così è nata una delle immagini più famose nel mondo del blues! Un discorso a parte poi, e un meritatissimo applauso vanno senz’altro tributati a Roger Stolle che attraverso il suo Cat Head, che è molto più di un semplice “spaccio” di dischi, libri e “folk art”, è diventato protagonista indiscusso di un autentico ”rinascimento” della terra del blues, della sua musica, del suo artigianato.
Nel suo negozio Francesco ed io abbiamo suonato davanti a decine di avventori indecisi ed eccitati come un bimbo nel paese dei balocchi tra un disco di ruspante country-blues e l’eccellente dipinto in stile naif di uno sconosciuto pittore “blues”. Nel Delta non c’è luogo che non sia collegato in qualche modo al mondo del blues, ai suoi miti e alle sue leggende. C’è però per me un posto e una persona che per me valgono più di tutto. Le emozioni più grandi infatti mi aspettavano anche quest’anno ad Helena, in Arkansas, che sembra un posto lontano dal Mississippi ed invece è appena al di là di un ponte sul grande fiume. In questa cittadina è nata nel 1941 la prima trasmissione dedicata al blues, la famosa “King Biscuit Time” per merito di un gruppo di musicisti destinati a fare la storia del blues: Sonny Boy Williamson II, Robert Jr. Lockwood, Pinetop Perkins e tanti altri. La radio, la mitica KFFA, è ancora viva e vegeta e anche la leggendaria trasmissione gode di ottima salute soprattutto grazie ad un grande uomo: Sonny Payne che da più di cinquant’anni tutti i giorni a mezzogiorno e un quarto trasmette il leggendario programma. L’anno scorso mi aveva invitato a suonare in diretta al King Biscuit Time. Io avevo soffiato dentro la mia armonica ma l’emozione era stata così forte che solo qualche giorno dopo ho realizzato che la mia musica era passata attraverso gli stessi microfoni dai quali nel 1941 Sonny Boy Williamson, per me il più grande armonicista di tutti i tempi, faceva ascoltare il suo blues in tutto il Mississippi e dintorni.
Un amico previdente aveva scaricato in Italia la trasmissione e allora per condividere questa mia grande gioia con chi mi segue e mi apprezza ho voluto inserire una parte di quel momento nel mio più recente cd: “The breath of soul”. Non stupitevi se quando lo andrete a trovare vedrete Sonny con un cappellino con la scritta Italia: gliel’ho spedito io il Natale scorso e lui se l’è messo il giorno che io e Francesco siamo tornati a suonare alla mitica trasmissione. E le parole che mi ha detto a proposito della passione che metto nella mia musica vorrei che un giorno venissero davvero scritte sulla mia lapide. Sono parole troppo belle perché siano dimenticate. Sono sicuro che resteranno scolpite e nascoste segretamente nel mio cuore per il resto della mia vita. Cosi come non dimenticherò mai più la cordialità della gente comune che ho incontrato suonando al mitico Ground Zero di Clarksdale o alla Hopson Plantation dove Pinetop Perkins è cresciuto raccogliendo cotone.
E nonostante la stretta allo stomaco che ho provato visitando il Museo dei diritti civili a Memphis, nonostante abbia visto con le lacrime agli occhi la camera del Lorraine Motel dove è stato ucciso Martin Luther King, nonostante ci sia ancora qualcuno nel mondo a cui danno fastidio i cartelli con la scritta “I am a man – io sono un uomo”, nonostante ci sia ancora parecchia strada da percorrere per fare diventare il sogno di Martin Luther King una realtà; nonostante tutto questo io non ho perso la speranza in un mondo migliore e credo che la musica ed il blues possano fare davvero molto. L’ho imparato in Mississippi dove mi sono sentito parte della grande famiglia del blues, una famiglia dove il colore della pelle non fa la differenza, dove, almeno per una volta, l’unico colore che conta è il blues, l’unica musica che può guarire “il male di vivere”, la malinconia. Le mie avventure in Mississippi non sono passate invano sulla mia pelle e adesso finalmente forse posso dire che sono diventato migliore, sono diventato un uomo – I am a man!.
Tutte le foto sono di Angelina Megassini