Johnny Cash

Non ho mai conosciuto Johnny Cash. E Dio solo sa quanto mi sarebbe piaciuto parlare con lui. Adesso questa cosa è diventata davvero difficile perché lui se ne è andato, il 12 settembre 2003, a 71 anni, l’età di mio padre, per il peggioramento del suo diabete. Chissà adesso quante ne scriveranno su di lui, dimenticandosi che Johnny ci ha lasciato per raggiungere il suo amico “fuorilegge” Waylon, scomparso l’anno scorso, ma soprattutto per riprendere a cantare con la sua June, la sua compagna, che lo aveva lasciato lo scorso maggio. Così Johnny la descriveva nella sua biografia del 1997: “Quello che June faceva per me era mettere segnali sul mio cammino affinché io non perdessi la strada, lei mi teneva su quando io ero debole, e mi incoraggiava quando di coraggio ne avevo poco, e mi amava quando mi sentivo solo e abbandonato. Lei è stata la più grande donna che abbia mai conosciuto, quella che di più mi ricordava mia madre”.

Il mio incontro con lui, Johnny, è stato al mitico Sun Studio di Memphis, Tennessee dove lui appariva in una gigantografia, appesa al muro, dove c’erano fotografate quattro delle figure più leggendarie che incidevano in quella importante sala di registrazione negli anni ’50. C’erano: Carl Perkins, Elvis, Jerry Lee Lewis e Johnny a rappresentare la continuità con le radici del suono americano, quelle ballate folk che uscivano dalla chitarra “che uccideva i fascisti” e dalla voce di Woody Guthrie. Anche Johnny Cash era nato povero in Arkansas in piena Depressione nel 1932. Figlio di braccianti fu spazzato via dalla polvere e dalle cavallette (un altro dust bowl children) e Stephen Holden sul New York Times il giorno che è morto ha scritto di Johnny: “Lui è stato il più grande poeta nella nostra musica tradizionale.
Nessuno come lui riusciva a cantare per la povera gente che lavora: le sue canzoni dure, dirette come un pugno nello
stomaco, descrivono la vita dei braccianti, dei minatori, dei cowboys, (quelli sui quali c’è poco da divertirsi), di chi costruiva la ferrovia, degli operai alienati nelle fabbriche”.
Avevamo, e forse abbiamo ancora due cose in comune io e il grande Johnny Cash: tutte e due suoniamo l’armonica, ( beh, lui l’ha suonata poco, io un po’ di più) e abbiamo avuto la fortuna di incontrare due donne straordinarie che ci hanno aiutato quando siamo caduti dentro il buco nero della vita.
June Carter Cash che lui ha sposato nel 1968 gli ha davvero salvato la vita, tirandolo fuori, non sempre con successo, dalla droga e dall’alcol, spesso inevitabili compagni di strada degli artisti più sensibili.
L’unicità della sua voce baritonale d’altri tempi, il suo look che faceva pensare ad un undertaker cowboy, ad un becchino dei cowboy, lo ha fatto davvero entrare tra quei personaggi mitici che attraversano il tempo e le generazioni. Lui cantava le canzoni delle nuove generazioni e le nuove generazioni cantavano le sue canzoni. Il più grande figlio di quella figura leggendaria nel panorama folk americano che è Woody Guthrie e cioè il giovane Bob Dylan da Duluth, Minnesota, quando ha voluto fare un album dedicato alle proprie radici musicali e cioè Nashville skyline, non potendo avere Woody Guthrie a cantare con lui, ha scelto, senza pensarci troppo chi già stava cantando per la povera gente, per i diseredati, i prigionieri, i soldati mandati da Johnson e Nixon a morire e a far morire la gente in Vietnam, pieni di eroina ed allucinogeni, e cioè The man in black: Johnny Cash.

A proposito di Nashville e Vietnam, Johnny Cash e gli altri tre outlaws i fuorilegge più famosi: Willie Nelson, Waylon Jennings e Kris Kristofferson, lasciarono quella Nashville piena di lustrini e ipocrisia (splendidamente raccontata anche da Altman nell’omonimo film) per una strada lontana mille miglia dalle grandi case discografiche, ma vicino alla gente come loro, la gente per la quale cantavano.
Questo ha permesso a Johnny di portare il suo famoso ritmo Boom-cicka-boom in Vietnam o nelle prigioni dove la gran parte del popolo americano soffriva per quella grande ingiustizia che è la negazione dei diritti
civili. Ed è proprio in quegli anni che la parola country, peraltro inventata dall’industria discografica, diventa sinonimo di canzonacce, arrangiate con gusto pessimo (e oggi con il new country non è che sia cambiato molto) e pieni di testi demenziali che parlano di patriottismo e di altre cazzate simili costringendo quindi i folksingers, veri e non di plastica, come Johnny Cash ed altri a suonare davvero le canzoni dell’altra America, per l’altra America.
La loro non era una contestazione, era un modo di vivere, di pensare, di cantare.
Mi ha fatto davvero ridere leggere le parole che famosi giornalisti musicali italiani hanno scritto sul rapporto tra Johnny Cash, la droga, l’alcool e la galera.

Due noti giornalisti musicali cialtroni, hanno scritto che Johnny ha passato metà della sua vita in galera. Purtroppo questi coglioni non sono neanche capaci di leggere tutti gli articoli che sono usciti (ahimè in inglese) in tutto il mondo civile: Johnny Cash ha passato un giorno solo in galera, per il possesso di pillole, che con la presentazione di una ricetta medica sarebbe stato legale avere con se.
Nessuno, invece, ha parlato di quella profonda depressione che tormentava la sua anima (la stessa di Jim Morrison, di Townes Van Zandt, di Luigi Tenco), che si leggeva nei suoi occhi e che lo costringeva a vivere disperatamente una eterna lotta (che io tra l’altro conosco bene) tra la voglia di lasciar perdere tutto e la voglia di andare in giro a raccontare storie.
E allora, chi ti può aiutare meglio degli psicofarmaci o dell’alcol?
Per chi vive nel mondo normale tutto sembra semplice, ma vi assicuro che l’anima di un artista è la cosa
più complicata da decifrare.
Nella sua carriera Johnny Cash ha registrato più di 1500 canzoni, dal Blues (come ci rimarranno male i miei amici appassionati di New Country) ai canti religiosi, passando attraverso le canzoni dei cowboys (quelli che non divertono), le canzoni degli indiani, dei costruttori delle ferrovie, e persino quelle per i bambini, anche se le sue prese di posizione contro il potere politico del suo paese, contro la pena di morte (memorabile il suo intervento musicale nella colonna sonora del film Dead man walking), a favore della campagna di sensibilizzazione sull’AIDS (a proposito, da brivido la sua performance di Forever Young di Dylan sulla raccolta: Red, Hot + Country), gli hanno negato la trasmissione delle sue canzoni nelle radio più importanti d’America.

Ray Cash, suo padre era stato davvero un hobo, un bracciante vagabondo, che per colpa della Depressione, si muoveva per cercare lavoro viaggiando sui tetti dei vagoni ferroviari e Johnny, Johnny questo non lo ha mai dimenticato.
E’ vero, non è stato abbastanza in galera come sarebbe piaciuto ai buffoni travestiti da giornalisti musicali del nostro paese, ma … non c’è bisogno di stare tanto in galera per capire che ci si sta davvero male, e che, i veri delinquenti (e noi italiani questo lo sappiamo bene) spesso sono fuori.

Mi fanno un po’ sorridere i gangstarapper, i rappers arrabbiati con i loro testi contro lo strapotere della
polizia, soprattutto se vado a leggere il testo di Folsom prison blues che Cash cantava in pieno
schifosissimo maccartismo americano.
Non è stato certo perdonato Johnny Cash quando ha cantato la ballata di Ira Hayes (più tardi portata al successo da Bob Dylan) il cui testo racconta di un eroe di guerra, nativo americano, che rispetto ai suoi commilitoni ricoperti di medaglie e di onori, viene dimenticato e cade nella trappola dell’alcol che presto lo porterà, prima ad essere discriminato (cosa peraltro quasi scontata per un pellerossa) e poi, alla morte per fegato spappolato dall’alcol (così scrisse il coroner sul referto medico legale).

Il suo legame con il folk, con la musica delle radici del suo paese, incomincia al Festival di Newport nel 1964 quando conosce Bob Dylan, ma, il suo nuovo e consapevole incontro con la musica tradizionale americana si consoliderà diventando il genero della leggendaria Mother Maybelle Carter, colei che sarà per anni un faro nella notte per chiunque vorrà addentrarsi nel mondo della musica popolare americana, colei che riporterà alla luce antichissime, bellissime e sempre attuali canzoni tradizionali, come Amazing grace e Will the circle be unbroken .

A proposito di Mother Maybelle Carter da ascoltare (l’unico prezzo da pagare è la pelle d’oca) la versione di Johnny nel brano dedicato al giorno in cui lei è mancata, contenuto nel terzo volume di Will the circle be unbroken della Nitty Gritty Dirt Band.
Le parole di Johnny prima della esecuzione della canzone dedicata alla mamma di sua moglie, saranno per sempre scolpite nel mio cuore.
Il suo sogno, come dice nella sua biografia curata da Patrick Carr, era quello di morire sul palco, sotto le calde luci del palcoscenico con la sua June vicino, la sua band e tutta la gente che gli voleva bene.
Sapeva benissimo che questo è il sogno di ogni artista… Però chi ci può impedire di sognare la nostra morte?
Il disco che vi consiglio di ascoltare è: American recordings che ha vinto il Grammy Awards come miglior album folk nel 1994.
E’ uno dei più bei testamenti che le mie orecchie abbiamo avuto modo di ascoltare in questi anni.
Fate un piacere a me, Bob e Johnny: restate sempre giovani (Forever young) oppure come ho letto una volta sulla schiena di un motociclista, di un bikers a Lampasas, Texas: “Fai un dispetto al tuo becchino, vivi per sempre…”.