GUY DAVIS

GUY DAVIS Alle radici del blues

Guy Davis ha un cuore grande. Grande come una casa. La sua generosità, il suo contagioso sorriso e la sua straordinaria umanità fanno di lui un musicista assolutamente unico nel suo genere. Ho avuto il privilegio di suonare ancora una volta con Guy al Lucerna Blues Festival. Lì è dove ho imparato, più che in ogni altra occasione, a riconoscere in lui l’erede naturale di tutti i più grandi bluesmen del passato. Guy suona il blues come se sapesse che il futuro di questa musica dipenda in qualche modo da lui. Ogni volta che sale sul palco la sua passione e la sua forza emotiva sono capaci di trasportare qualsiasi musicista o persona tra il pubblico in un indimenticabile viaggio alle radici della musica afroamericana. Questa intervista, o meglio questa conversazione, in qualche modo intima, l’ho raccolta parlando con Guy ogni giorno tra un sound-check e un concerto, tra una jam e una bevuta tra amici. Amici di blues. Questo è quello che ne è venuto fuori.

Come è cominciato tutto?
Credo che la prima ad influenzarmi sia stata mia nonna che mi raccontava le storie dei bluesmen del sud. Io vivevo a New York ma ero affascinato dalla magia dei racconti rurali. A suonare la chitarra ho imparato da solo. Non ho mai avuto la pazienza di prendere lezioni. Era una cosa che non faceva per me. Ho appreso molto di più guardando gli altri suonare. Come quella notte su un treno da Boston a New York in cui vidi un uomo con sole nove dita suonare perfettamente la chitarra in stile fingerpicking. Il banjo a cinque corde suonato in stile clawhammer come facevano i vecchi bluesmen invece me l’ha insegnato in un campo estivo nel Vermont John Seeger, fratello del più famoso Pete.

I tuoi genitori sono Ossie Davis e Ruby Dee, due attori piuttosto famosi negli States e celebri anche per il loro impegno nella lotta per i diritti civili degli afroamericani. Che musica si ascoltava in famiglia?
I miei ascoltavano di tutto. Dal jazz alla classica alla musica folk. In particolare quella africana. E poi Harry Belafonte, Paul Robeson e Fats Waller che piacevano molto anche a me.

Ho letto da qualche parte che una delle tue maggiori influenze è stato Taj Mahal. Puoi spiegarmi perché?
Taj è una persona profonda che ha una grande anima. Lo senti quando prende la canzone di qualcun altro e la canta come se fosse propria, trasfigurandola completamente. Non ha mai cercato di copiare i grandi maestri del blues nota per nota ma di capirne l’essenza. Ma la più grande lezione di Taj per i musicisti che come me sono venuti dopo di lui, è stata quella di mostrarci la strada maestra con preziosi consigli e grande altruismo. E’ per merito suo se ho avuto il primo ingaggio come attore a Broadway nel 1991. Taj aveva scritto le musiche di una commedia chiamata Mule Bone scritta da due miei grandi eroi Zora Neale Hurston e Langston Hughes.

Quali altri erano i tuoi eroi agli inizi?
Sicuramente Leadbelly, Blind Willie McTell, Skip James, Mance Lipscomb, Mississippi John Hurt, Elizabeth Cotten , Sleepy John Estes e Muddy Waters che suonava Delta blues anche quando imbracciava una chitarra elettrica. E poi Buddy Guy e Junior Wells che furono i primi musicisti che vidi dal vivo e che mi fecero letteralmente impazzire per come suonavano.

Come sta il blues?
Il blues è vivo e vegeto ma è pur sempre una specie a rischio. Ed è un peccato che purtroppo gli afroamericani stiano lontani da questa musica perché ricorda loro un doloroso passato. Io penso che invece dovrebbero andarne fieri perché fa parte del loro DNA. Dovrebbero essere fieri del fatto che parecchi anni fa la gente faceva miglia e miglia a piedi o in carrozza per andare ad ascoltare i primi bluesmen. Dovrebbero essere fieri di come oggi il blues sia diventato una lingua internazionale che musicisti di tutto il mondo rispettano e amano suonare.

Come è cambiato il blues dai suoi inizi a d oggi?
Il blues di oggi è molto diverso da quello che si suonava all’inizio del Novecento. Ma è normale ed è giusto così. D’altronde il blues è sempre stato in continua evoluzione. Gli stessi Blind Lemon Jefferson o Robert Johnson erano piuttosto avanti rispetto ai loro tempi. Quello a cui io aspiro è continuare a tenere in vista le radici di questa musica. Che è sempre moderna, ieri come oggi. Il blues è la madre di tutte le musiche. Se ascolti qualcosa di contemporaneo non puoi non accorgerti che il blues sta dappertutto. Il blues come ho già detto appartiene a tutto il mondo e ciò che noi musicisti dobbiamo fare è diffonderlo il più possibile.

Ecco spiegato il motivo perché durante tutti questi anni ti sei così impegnato nel programma Blues in the school che intende portare il blues nelle scuole.
Ci sono ancora troppe persone che non conoscono il blues. E questo è un peccato. Perché il blues ha molte cose da dire. A tutti. Soprattutto ai più giovani, agli studenti delle scuole. E’ solo attraverso l’insegnamento non noioso che possiamo espandere il numero delle persone che amano il blues. I bambini e i ragazzi con la loro innocenza e la loro mancanza di pregiudizi hanno sempre risposto bene alle mie lezioni sul blues. E questo è bellissimo. Mi è sempre piaciuto portare il blues dappertutto. All’inizio della mia carriera ho suonato spesso per i bambini e poi negli ospedali, nelle prigioni, negli ospizi e ovunque ci fosse qualcuno a cui facesse piacere ascoltare del blues.

Come descriveresti la tua musica?
Adoro suonare il blues nello stesso modo in cui era suonato un centinaio di anni fa. Mi piace lo stile di Blind Lemon Jefferson: potente, grezzo ed emozionante. Ma non pensiate che io sia un purista. Io stesso ogni tanto mi allontano da ciò che viene canonicamente chiamato blues. Come ho già detto l’importante non è tanto lo stile, la struttura, le parole e gli accordi di una canzone. E non è neanche importante che sia acustico o elettrico. La vera cosa importante è lo spirito del blues. Quella è l’unica cosa che fa la differenza.

Chi sono i musicisti blues contemporanei che più ammiri?
Un musicista che stimo particolarmente è Eric Bibb. La sera che mia sorella mi comunicò che mio padre era morto provai un dolore enorme. Insopportabile. Ero lontano da casa e disperato. Presi la chitarra quasi senza rendermene conto e cominciai a cantate Needed time nella versione di Eric. Una versione magnifica. E cantando strofa dopo strofa e ritornello dopo ritornello quella canzone imparai che quel vecchio spiritual aveva il potere di lenire il mio cuore ferito. Ma al di là di questo ricordo personale, Eric oltre ad essere un amico di vecchia data è davvero un musicista eccezionale. La sua versione di Going Down Slow è assolutamente straordinaria. In tanti compreso me hanno rifatto il classico di St. Louis Jimmy Oden ma nessuno è riuscito a catturarne l’essenza come Eric. Ho grande stima anche per Corey Harris e Alvin Youngblood Hart. Sul versante elettrico mi piacciono molto Kenny Neal e Joe Louis Walker.

Che cosa scatena in te la voglia di scrivere una canzone?
Qualsiasi cosa che abbia dietro una storia capace di smuovere il mio cuore e di conseguenza quello di coloro che vengono ad ascoltarmi. Mi è capitato spesso che dopo un concerto le persone mi dicessero di quanto la mia musica li avesse sollevati dai loro pensieri. Li avesse allontanati almeno per un momento dai loro problemi. Ecco perché il blues è davvero una musica speciale, una musica capace di farti sentire meglio.

E di questi tempi non è poco.

Foto di Cinzia Parise