Il blues

Estratto dal libro:
Angeli perduti del Mississippi: storie e leggende del blues
di Fabrizio Poggi
(Meridiano Zero / Odoya)

 

Il blues è uno stile poetico e musicale le cui origini vanno ricercate tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento nel sud degli States a opera degli afroamericani. Il blues è l’unica musica popolare realmente americana, essendo nata da una fusione di elementi musicali europei e africani che poteva avvenire solamente in America.
Per quanto riguarda l’origine della parola blues le tesi più accreditate sostengono che risalga all’Inghilterra del Seicento. L’espressione to have a foot of the blue devils (avere i diavoli blu) era riferita alle allucinazioni visive che spesso tormenta vano gli alcolisti cronici in crisi di astinenza. Ben presto il termine blues divenne sinonimo di depressione e ansia emotiva. Non tutti i blues sono tristi, però spesso lo sono e poi va considerato il fatto che il blues è la medicina musicale con cui gli afroamericani cercavano di guarire la loro tristezza esistenziale. A inizio Ottocento, negli States, la parola blue (senza la ‘s’) era sinonimo di ubriaco, e alcol e blues, come sappiamo, sono sempre andati piuttosto d’accordo.
Il blues era la musica che accompagnava le danze sensuali degli afroamericani lo slow drag – il sabato sera nei juke joints, le bettole per neri del sud degli States dove birra e whisky scorrevano a fumi.
La maggior parte dei blues è composta da una strofa di dodici misure in cui si dispongono tre versi quasi sempre composti in prima persona. Il primo verso si ripete solitamente due volte per creare quell’attesa e quella tensione musicale e lirica proprie del blues. Il blues, con il suo ruspante immaginario erotico e i suoi riferimenti alle terribili condizioni di vita degli afroamericani, è stato messo sul pentagramma (e non inventato, come a volte erroneamente si pensa) intorno al 1910 dal compositore nero W.C. Handy.
Handy fu anche il primo a codificarlo ufficializzando la famosa progressione di accordi I, IV, V.
Il suo primo incontro con il blues avvenne nel 1903, nella stazione di Tutwiler, Mississippi, dove sentì un vagabondo nero che cantava e suonava la chitarra sfregando la lama di un coltello sul manico: “Quella era la musica più strana e affascinante che avessi mai sentito”, scrisse Handy nella sua biografa qualche anno più tardi. Il blues che Handy aveva sentito era però probabilmente molto diverso da quello che lui codificò. Era il blues primitivo degli inizi, che non si curava né di cambi di accordi né di altre regole musicali. Era quel blues che ritroviamo nelle canzoni di John Lee Hooker, Fred McDowell e Junior Kimbrough (solo per citarne alcuni).
Senza voler scendere troppo nei dettagli, possiamo affermare che l’origine del blues va sicuramente ricercata negli hollers e nelle work songs dei neri, che si sono evoluti più tardi in un vero e proprio stile musicale, sulla genesi del quale il ritmo dei tamburi africani e l’usanza sempre africana di cantare in falsetto hanno avuto un ruolo di primo piano. Nei primi anni del Seicento i padroni delle piantagioni incoraggiavano i momenti musicali degli schiavi e quel loro modo nuovo di fare musica con strumenti a corda e a percussione, ma dopo una ribellione a suon di tamburi avvenuta nella Carolina del Sud nel 1739, l’uso delle percussioni con le quali i neri comunicavano tra loro fu proibito.
Non potevano suonare né la tromba né altri strumenti rumorosi. Per evitare grane, nel 1831 si decise di proibire ai neri di imparare a leggere e a scrivere. Ma nessuno può fermare la musica e le più tranquillizzanti musiche europee, che gli schiavi imparavano dai loro padroni, una volta suonate e cantate dagli africani non potevano che sfociare in quello che oggi chiamiamo blues.
Un altro elemento sonoro che i neri si erano portati dall’Africa era l’uso del canto antifonale – ovvero il botta e risposta tra una voce solista e un coro. Questa affascinante tecnica si estese ben presto a tutta la musica popolare americana.
Gli schiavi e i braccianti che lavoravano nei campi di cotone americani altro non facevano se non quello che erano abituati a fare nei loro campi in Africa, cioè cantare improvvisando in base al ritmo su cui era impostato il lavoro. Nelle piantagioni di cotone e di tabacco e nei cantieri per la costruzione degli argini
dei grandi fumi o della ferrovia il capo fila lanciava una strofa e tutti gli altri lavoratori gli rispondevano in coro. Ancora oggi nel gospel abbiamo modo di sentire quello che i musicologi americani chiamano call and response. In Africa i neri erano abituati a pregare e a ringraziare le loro divinità per il raccolto e per quanto offriva di buono la vita. In America questo gli venne proibito, così come gli venne proibito comunicare tra loro nelle lingue e nei dialetti africani. I neri allora incominciarono a cantare in una specie di inglese che avevano imparato da soli, in cui confluivano ovviamente e pesantemente gli accenti e la sintassi delle loro lingue madri. Nelle chiese gli elementi africani – come il ritmo sincopato, la polifonia, le frasi urlate –, mescolandosi con gli inni sacri europei diedero vita allo spiritual, evolutosi poi nel gospel, mentre nei campi di cotone gli stessi elementi uniti alle canzoni popolari anglosassoni diedero vita al blues.
Tipiche del blues (e poi del jazz) sono inoltre le cosiddette note blu, le blue notes che sono note modulate in una chiave ambigua tra maggiore e minore, capaci di trasmettere all’ascoltatore quel senso di struggente malinconia, di perdita, di abbandono, unito a quello di guarigione interiore, caratteristiche espressive che faranno del blues la musica madre di tutti i generi che verranno dopo. All’inizio il blues era cantato a cappella, cioè senza alcun accompagnamento principale.
Dopo la liberazione dei neri dalla schiavitù, furono tanti gli afroamericani che, armati di una chitarra o di un’armonica a bocca, cominciarono a viaggiare da una festa danzante all’altra, portando in giro le loro canzoni blues. Alcuni di loro cominciarono a pensare che quello poteva diventare un mestiere vero e proprio e non solo qualcosa che si faceva nelle ore libere dal duro lavoro. A poco a poco tutto il mondo si accorse del blues, una musica che sembrava davvero nata per esprimere i patimenti e le passioni sia fisiche sia spirituali di ogni individuo al di là del colore della sua pelle.
È interessante notare che, mentre nella musica africana gli assoli degli strumenti hanno un’importanza piuttosto relativa, nel blues, al contrario, l’assolo diventa fondamentale. Forse tutto ciò è da imputarsi al culto dell’individualità così esasperato nella società americana. Un altro elemento di sicura influenza sul blues è stata la tradizione dei griots africani, veri e propri cantastorie che tramandavano i racconti di generazione in generazione. Sono in molti coloro che trovano incredibili somiglianze tra il blues americano e la musica dell’Africa occidentale, in special modo del Mali, senza che i musicisti di entrambe le nazioni si siano mai ascoltati l’un l’altro. Sebbene a un primo approccio il blues appaia poco interessato all’impegno civile (non bisogna dimenticare che ai neri è stato impedito a lungo di protestare per il proprio disagio esistenziale), come non leggere nei testi delle canzoni d’amore, passione e infedeltà dei bluesmen un riferimento implicito – ma neanche troppo – alla loro condizione di schiavi o di mezzadri sfruttati? Come non vedere nella no good woman, la donna crudele, cattiva, che tiene il suo uomo in chains, in catene, il padrone bianco della piantagione che ha oppresso e sfruttato per anni il popolo afroamericano? I primi cantanti di blues trasferiranno ben presto sulle armoniche a bocca e sulle chitarre i propri originali vocalizzi cercando note e intervalli che non esistevano nei loro strumenti. Attraverso la tecnica del bending – cioè piegando, anche in senso letterale, le corde delle loro chitarre e le ance delle loro armoniche – gli afroamericani daranno vita a uno stile musicale destinato a cambiare per sempre la musica del Novecento e non solo.
Una cosa insegnavano un tempo i bluesmen più navigati a quelli meno esperti, una cosa che vale ancora oggi, e cioè che nel blues, come e più che in altre musiche, i silenzi e le pause sono importanti almeno quanto i suoni. I musicisti dicevano spesso che less is more, ovvero che non è importante il numero o la velocità delle note suonate ma la qualità di ogni singola nota. Bisognava scegliere in mezzo a tante la nota giusta, la nota che emozionava, che colpiva al cuore.
Solo dopo anni un musicista di blues riusciva a capire qual era la nota giusta da suonare, ma quando riusciva a trovarla voleva dire che era davvero pronto, pronto per suonare il blues.

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