Estratto dal libro:
Il soffio dell’anima: armoniche e armonicisti blues
di Fabrizio Poggi
(Master Music / Ricordi)
L’armonica a bocca è stato, probabilmente, il primo strumento pensato e creato per suonare la musica folk. Gli artigiani tedeschi che inventarono e svilupparono lo strumento agli inizi dell’800 (senza dimenticare l’importanza del boemo Richter), avevano probabilmente come obiettivo quello di costruire uno strumento musicale che fosse davvero “popolare”, uno strumento che tutti, ma proprio tutti, potessero suonare, al contrario del pianoforte e del violino che erano invece strumenti musicali alla portata di poche persone benestanti sia per le difficoltà tecniche d’approccio, sia per il costo, certo non alla portata di tutte le tasche, sia per l’ingombro durante gli spostamenti in una società che, non dimentichiamo, non aveva la possibilità di muoversi comodamente come succede oggigiorno. Questi ingegnosi ex orologiai tedeschi svilupparono uno strumento di piccole dimensioni, adottarono una scala musicale “diatonica”, anziché una più completa scala musicale “cromatica” e sistemarono le note sullo strumento in modo che il suonatore potesse ottenere con estrema facilità gli accordi (e di conseguenza le note che li componevano) di “tonica maggiore” e quelli di “sesta minore”, questi ultimi sostituti pressoché perfetti degli accordi di “settima dominante” così diffusi nella musica folk. Gli artisti che oggi suonano musica tradizionale negli Stati Uniti tendono, per la maggior parte, a gravitare intorno alla musica tradizionale del Sud, che è stata la prima ad essere registrata per scopi commerciali. Per molto tempo, si è pensato che la musica che si suonava nel Sud degli Stati Uniti fosse lo specchio esatto delle barriere culturali e soprattutto razziali che dividevano il mondo dei bianchi da quello degli afroamericani; si tendeva cioè a considerare la segregazione come spartiacque che portava a due diversi tipi di musicalità: quella degli schiavi africani che sfocerà poi nel blues e quella dei bianchi che porrà le basi per la country music. Si è, per nostra fortuna, scoperto più tardi che questo modo di pensare è un po’ troppo semplicistico. Nel Sud, in quegli anni, gli schiavi neri e i braccianti bianchi nullatenenti lavoravano e vivevano insieme tutto il giorno ed era quindi normale e spontaneo che si scambiassero anche i loro repertori musicali. D’altronde, erano canzoni che trattavano spesso le loro situazioni di lavoratori sfruttati e, quindi, il colore della pelle aveva una rilevanza non certo importante in quelle situazioni di assoluta miseria; l’unica vera e reale differenza musicale era tra ciò che si suonava nei salotti “buoni” della borghesia padronale e quell’incredibile ed eccitante miscela di suoni che si poteva ascoltare intorno alle baracche dei contadini bianchi e neri e che solo anni più tardi si svilupperà nel blues e nel country (anche se gli afroamericani continueranno a definire la musica country “blues suonato con un violino e una “pedal steel”…). Era comunissimo in quegli anni ascoltare da suonatori di banjo afroamericani autentiche gighe, reels o altri tipi di danza di chiara matrice europea e, quindi, non appartenenti al loro patrimonio culturale africano; sul versante opposto, i musicisti bianchi apprezzavano tantissimo e mettevano in pratica le “nuovissime” tecniche musicali inventate dai musicisti di colore. In quel periodo (siamo nei primi anni del ventesimo secolo), le compagnie discografiche non erano interessate a registrare dischi di artisti neri da vendere al pubblico degli afroamericani. La più famosa di queste piccole etichette, la Victor Talking Machine Company, non registrerà cantanti di colore fino al 1920. Sino ad allora la compagnia aveva tentato in tutti i modi, senza peraltro riuscirci, di interessare la gente di colore alla propria linea di registrazioni di musica classica denominata Red Seal. Bisogna ammettere che agli inizi degli anni ’20 del ’900, le compagnie discografiche fondate e guidate naturalmente da imprenditori bianchi, quando decisero di registrare artisti folk non erano minimamente condizionati dal colore della pelle degli artisti. D’altronde, a loro interessava soprattutto che la musica fosse buona e che, naturalmente, facesse vendere loro parecchi dischi. Il primo armonicista ad essere registrato dalla Victor fu DeFord Bailey con il brano “John Henry” (una canzone tradizionale molto popolare sia tra il pubblico bianco che afroamericano). Sullo stesso disco, si trovava un altro eccellente brano strumentale per armonica, “Chester Blues”, eseguito da un altro grande armonicista dell’epoca: D.H. “Bert” Bilbro. Il primo era un armonicista di colore, mentre il secondo era bianco, ma la cosa più interessante è che entrambi suonavano praticamente la stessa musica e che, incredibilmente, DeFord Bailey era notevolmente influenzato dalla musica dei bianchi, mentre Bilbro era davvero affascinato dal neonato blues degli afroamericani. In comune i due artisti avevano i suoni che contraddistinguevano tutti gli armonicisti dell’epoca e cioè l’incredibile capacità di questi musicisti di imitare suoni e versi di animali. I dischi di quegli anni saranno pieni di imitazioni del “suono del treno”, della “caccia alla volpe” o del “tenero bimbo che chiama la sua mamma”, eseguiti con eccezionale maestria dai bravissimi armonicisti di quegli anni. Uno dei migliori imitatori del “suono del treno” era Palmer McAbee che registrò, ad Atlanta in Georgia nel 1928, due brani destinati a fare epoca: “McAbee Railroad Piece” e “Lost Boy Blues”. Il suono inconfondibile della locomotiva a vapore, con i suoi caratteristici sbuffi, il tipico fischio, lo sferragliante stridore dei freni delle ruote dei vagoni che corrono sulle rotaie, il suono della macchina che sparisce e poi ritorna potente quando il treno entra ed esce dalla galleria e l’assordante rumore dei freni quando la locomotiva si ferma in stazione, sono magistralmente “imitati” in questi brani nei quali sembra davvero impensabile che questa affascinante atmosfera di suoni, sia creata da un uomo, solo con l’ausilio di una piccola armonica a bocca. Nel 1929 un altro valente armonicista di nome Freeman Stowers incide diverse tracce per la Gennett, una compagnia discografica che aveva sede in Indiana. Da quelle registrazioni l’etichetta pubblicò due brani: “The Cotton Belt Porter” e “Railroad Blues”, brano quest’ultimo incentrato sul suono del treno reso celebre da Palmer McAbee ma ormai a quel tempo patrimonio di tutti i più bravi armonicisti americani.
La canzone “Railroad Blues” sembra basarsi su una storia autobiografica davvero accaduta al musicista.
Il pezzo (tra l’altro una delle poche canzoni “ferroviarie” suonate usando l’armonica in “prima posizione”), più che soffermarsi sui suoni che contraddistinguono la partenza e l’arrivo del treno, si concentra con sapiente maestria sull’imitazione di una sbuffante locomotiva in corsa dalla quale esce l’inconfondibile fischio provocato dal vapore e d’intensità differente secondo la potenza sprigionata dalla macchina, usando una tecnica fino ad allora non ancora ascoltata su disco e, cioè, quella di suonare lo strumento emettendo simultaneamente o contemporaneamente piccole urla o lamenti. Il risultato, al di là di quanto sia complicato da descrivere, era veramente esaltante. Nella sua particolare versione della cosiddetta “Caccia alla Volpe”, che lui incise con il titolo di “Texas Wild Cat Blues”, Stowers dà un’ulteriore prova della sua abilità nel creare situazioni sonore al limite del vero, descrivendo con la sua armonica i suoni prodotti da una caccia ad un animale selvatico da parte di due uomini e dei loro cani. La scena sonora è veramente drammatica e mettono davvero i brividi le urla dell’animale braccato. Un autentico capolavoro, passato alla storia con la sua brillante imitazione di un serraglio pieno di animali, pubblicato su disco con il titolo emblematico di “Sunrise On The Farm”. Naturalmente senza alcun riferimento vocale, era difficilissimo stabilire se i musicisti fossero neri o bianchi. Le fotografie degli artisti all’epoca erano un lusso che poche compagnie musicali potevano permettersi. Freeman Stowers era comunque considerato un musicista di colore ma, tra i pezzi che ha inciso, ce n’è uno chiamato “Medley Of Blues” la cui parte centrale include “Hog In The Mountain”, un brano di sicura estrazione bianca. Naturalmente a quell’epoca anche questa patina di mistero che aleggiava intorno alla figura di questi musicisti faceva il gioco delle compagnie discografiche che alimentavano le leggende su questo o quel musicista e ben si guardavano dal rivelare la vera identità dei loro artisti. D’altro canto anche il grande Palmer McAbee era considerato un bianco, però il suo repertorio era quasi esclusivamente composto di brani blues. Tutto questo per affermare ancora una volta che in anni in cui la segregazione razziale era un pesante fardello per la popolazione nera, la musica sembrava quasi un’isola felice. Per diversi anni si è andati avanti a catalogare, quindi, gli artisti non in base al colore della pelle ma, bensì, basandosi sul genere musicale proposto fino ad un infausto giorno del 1927 quando i fratelli Allen, bianchi, ma che incidevano dischi traboccanti di influenze blues, fecero causa, perdendola, alla Columbia chiedendo alla compagnia 250.000 dollari di danni morali per avere quest’ultima incluso un loro disco nel catalogo dei “race records”, i dischi destinati alla gente di colore. Da quel momento, purtroppo, la linea era tracciata: d’ora in poi i bianchi suoneranno la loro musica e i neri si dedicheranno esclusivamente al blues. All’inizio del 1940, con l’industria discografica ormai più che affermata, comincia a prendere piede un fenomeno in controtendenza con le regole commerciali che, per tutti gli anni Trenta, erano state usate per la scelta delle incisioni da inserire nei cataloghi delle case produttrici di dischi. Grazie ad illuminati artisti come Leadbelly e il grande Woody Guthrie, che cantavano sia canzoni ispirate al folk di origine europea sia emozionanti blues, per un pubblico eterogeneo che non faceva alcuna distinzione tra musica bianca e musica nera, il fenomeno dei “race records” andò scomparendo per fare posto ad una nuova generazione di artisti che, uniti dalla stessa passione per l’impegno civile e la musica tradizionale, convergevano in quel mitico quartiere di New York che si chiamava Greenwich Village. Accanto ai già citati Leadbelly, Woody Guthrie, a Cisco Houston e Pete Seeger, c’era un armonicista che farà la storia dell’armonica moderna. Il suo nome era Sonny Terry, ma di lui parleremo più dettagliatamente nel capitolo dedicato alle pietre miliari dell’armonica blues.
Il festival Folk di Newport del 1960 permise a tanti armonicisti di uscire allo scoperto. Primo fra tutti il misterioso e quindi circondato da un alone di leggenda, Mel Lyman, che partecipò a diverse edizioni del festival. Personaggio di un certo peso della scena folk/blues di Cambridge, Massachussetts si esibì spesso in qualità di banjoista/armonicista con la “Jim Kweskin Jug Band” prima di abbandonare per sempre la musica fondando una propria comunità mistica. Un altro armonicista protagonista a Newport in quegli anni fu Tony Glover. Tony “Little Sun” Glover fu uno dei maestri di armonica del giovane Dylan (di cui era amico d’infanzia) e scrisse in quegli anni quello che probabilmente fu il primo vero metodo per imparare l’armonica blues, che pubblicò nel 1965, influenzando generazioni di musicisti. Questo bravo armonicista si esibiva spesso in trio acustico con gli eccellenti chitarristi e cantanti “Spider” John Koerner e Dave Ray, con i quali incise quattro dischi di successo tra il 1963 e il 1965 per la Vanguard: “Blues, Rags & Hollers”; “More Blues”, “Rags & Hollers” e “The Return of Koerner, Ray and Glover”. Doc Watson, che fu una delle maggiori attrazioni del festival nel 1963, oltre ad essere un eccellente virtuoso della chitarra “flatpicking”, si esibiva con maestria anche all’armonica a bocca. L’artista cieco di Deep Gap nel North Carolina, ricevette la prima armonica come regalo di Natale (era una tradizione della sua famiglia) alla tenera età di cinque anni. Profondamente influenzato dal country blues, ma anche dal gospel afroamericano, Doc Watson si è sempre dimostrato un armonicista sensibile ed emozionante pur usando poco lo strumento nei suoi concerti e nei suoi dischi, nei quali però appare evidente l’influenza di due grandi artisti delle venti ance: Wayne Raney e Lonnie Glosson. John Hammond (figlio di John Hammond Senior l’uomo che scoprì tantissimi artisti tra i quali ricordiamo Billie Holiday, Bob Dylan, Bruce Springsteen e lo stesso Sonny Terry) fece la sua comparsa al Newport Folk Festival nel 1963, poco prima della pubblicazione del suo primo album per la Vanguard. Già all’età di tredici anni, Hammond era un provetto chitarrista blues e, solo pochi anni dopo, era già un vero maestro nel suonare armonica e chitarra contemporaneamente con tale eccellenza e passione da avere, ancora oggi, pochissimi “concorrenti” nell’eseguire il blues in quello stile e con quella strumentazione. Nella metà degli anni Sessanta John Hammond, che faceva base a New York, si esibiva spesso accompagnato da band “elettriche”. Una di queste fu The Hawks che più tardi diventerà famosissima con il nome di The Band trasformandosi, di fatto, nel gruppo di Bob Dylan. In quel periodo Hammond, incise tre album di successo per l’Atlantic (con Duane Allman alla chitarra) e la colonna sonora acustica di un film, destinato a fare epoca: “Il piccolo grande uomo”, con Dustin Hoffman. La sua fama crebbe ulteriormente quando, nel 1973, formò il supergruppo blues “Triumvirate”, che comprendeva oltre allo stesso Hammond il grande Dr. John al piano e l’altrettanto straordinario Mike Bloomfield alla chitarra. La band avrà vita breve, ma lascerà un segno indelebile nella musica blues che influenzerà parecchie generazioni di musicisti. John Hammond è ancora attivissimo tutt’oggi. Davvero imperdibili sono i suoi dischi ma soprattutto le sue performance “live”, nelle quali si esibisce spesso da solo e il sound che riesce a creare con la sua armonica e la sua chitarra suonate insieme è davvero incredibile e trascinante.
Non esiste musica moderna nel mondo occidentale che non sia stata influenzata dal blues. Dal jazz, alle classiche canzoni swing degli anni ’40 del ‘900, alla musica country, dovunque troviamo tracce di blues.
Nonostante il tentativo della cultura bianca di cancellare quella degli schiavi neri, questi ultimi hanno avuto la loro rivincita creando l’unica musica americana autenticamente tradizionale: il blues. Forzati all’uso di strumenti occidentali, gli schiavi provenienti dall’Africa hanno sviluppato uno stile musicale che comprende sia la musica delle loro terre d’origine sia quella europea opportunamente filtrata dalla cultura statunitense. Basti pensare alla genialità della progressione dei tre accordi “madre” del blues, sulle leggendarie dodici misure. Ma se la struttura del blues è “tipicamente” americana, africana è invece l’essenza stessa della musica. La storia della musica occidentale è segnata dalla ricerca dell’intonazione e della pulizia del suono e tutti gli strumenti costruiti in Europa erano fabbricati secondo queste “regole”. I musicisti africani avevano invece sensibilità diverse e altre attitudini sonore. Il ricercatore blues Paul Oliver ha notato che i musicisti africani (gli schiavi, che provenivano per la maggior parte dall’Africa Occidentale), avevano invece un autentico rifiuto della nota “pura” per eccellenza, così apprezzata in Europa nella musica occidentale dove “note sporche”, ronzii, rumori “strani” e altri effetti erano davvero un peccato “mortale” per un buon musicista. Gli africani, invece, giudicavano i loro artisti proprio in base alla loro abilità nell’ottenere questi “inusuali” suoni. Le stesse caratteristiche che facevano dell’armonica uno strumento piuttosto sottovalutato dai critici musicali dell’Ottocento e cioè il suono impuro e la possibilità di suonare note “non esistenti nello strumento”, avevano invece un grande fascino sui discendenti degli schiavi africani. Non potendo accedere alle “normali” lezioni musicali, gli afroamericani furono quindi liberi di sviluppare nuove e “radicali” tecniche per i loro strumenti, al fine di esprimere al meglio le proprie emozioni musicali. Furono sperimentati ed adottati nuovi schemi di accordatura per la chitarra, si cominciarono a “sfregare” sul manico dello strumento coltelli e colli di bottiglie per ottenere un suono che facesse breccia nei cuori degli ascoltatori. La parte anteriore dei pianoforti fu tolta e pezzi di giornale furono messi sui martelletti per ammorbidirne “l’attacco” e nuovi sistemi di muovere le dita sulla tastiera furono inventati. Il vibrato e l’effetto wha-wha possibili sull’armonica attraverso l’uso delle mani, iniziarono ad essere considerati un modo di suonare da veri virtuosi e allo stesso tempo si gettarono le basi di quella che diventerà la cosiddetta “seconda posizione” ovvero l’armonica blues.
Suonare l’armonica accordata in do su di un blues in sol (usando in pratica la “seconda posizione”, denominata anche “cross-harp position”) permetteva ai musicisti di avere molte più note a loro utili aspirando dai fori. Questo dava a loro la possibilità di suonare molto più forte e di poter “piegare” le note ottenendo così terze minori, quinte diminuite e settime minori che erano e sono la caratteristica principale della scala “blues”; ma quello che fece diventare l’armonica lo strumento principe della “musica del diavolo” (oltre alla facile trasportabilità e al non eccessivo costo), fu il fatto di poter davvero “cantare” attraverso lo strumento. Gli schiavi provenienti dall’Africa occidentale avevano portato con sé un’immensa passione per il canto, che dapprima fu “incanalata” dai padroni bianchi nell’esecuzione di inni sacri di origine europea, ma, più tardi, fuoriuscì da quegli schemi, in qualche modo imposti, diventando quello che i neri cantavano senza accompagnamento nei campi, mentre lavoravano, in una parola: il blues. Il blues è in generale una musica che strumentalmente può raggiungere livelli elevatissimi ma è solo con il canto che questo seducente genere musicale raggiunge il suo paradiso artistico e il fatto che l’armonica a bocca potesse dare “voce” alle emozioni come se “cantasse”, segnò subito il successo strepitoso di questo strumento tra gli afroamericani.
L’apprezzato musicologo Michael Licht, afferma che gli afroamericani cominciarono ad usare l’armonica a bocca intorno al 1870. Molti artisti diventati poi famosi per altri strumenti musicali, hanno avuto il loro battesimo “blues” con l’armonica. Il “mitico” Robert Johnson, che si dice abbia venduto l’anima al diavolo ad un crocicchio in cambio di una grande maestria nel suonare la chitarra blues (anche se prima di lui si dice l’avesse già fatto Tommy Johnson), pare abbia cominciato proprio suonando l’armonica. Il grande Muddy Waters, racconta nel bel libro di Robert Palmer “Deep Blues”, che aveva nove anni quando cominciò a suonare la sua prima armonica, la sua prima “french harp” come veniva chiamata nel Sud degli States (a quel tempo qualsiasi cosa arrivasse dall’Europa era chiamata “french”- francese, anche se in realtà le armoniche arrivavano dalla Germania). “…Mi piaceva davvero suonare la “french harp” …” diceva “…la suonavo sempre quando facevamo i barbecue a base di pesce o durante i pic nic e mi piaceva tanto. Non avrei mai dovuto smettere di suonarla e invece a sedici anni lasciai l’armonica e passai alla chitarra, ma la mia prima vera esibizione fu come armonicista nello stato del Mississippi dove sono nato. Ero stato assunto da uno dei tanti “spettacoli viaggianti” e fu appunto con il “sassofono del Mississippi” (altro nome dell’armonica nel Sud degli Stati Uniti) che guadagnai i miei primi soldi con la musica…”. L’armonica rimase per sempre nel cuore di Muddy Waters, tanto che nelle sue leggendarie band hanno sempre militato i migliori armonicisti in circolazione ed è quindi grazie anche a questo grande artista se oggi l’armonica è, insieme alla chitarra, lo strumento principe del blues.
Le “jug bands”, erano gruppi “da strada”, che suonavano una musica che era un incrocio tra il country blues e il primo jazz, dixieland compreso. Venivano così chiamate per la costante presenza di un suonatore di jug, che altro non era se non una grossa bottiglia in cui si soffiava per ottenere le note basse. Queste piccole bands formate soprattutto da suonatori di strumenti a corda, erano l’equivalente “povero” delle più grandi e famose big band di jazz tanto in voga in quegli anni. Le prime jug bands si formarono a Louisville nel Kentucky e a Cincinnati nell’Ohio già nel 1915. Il suono delle jug bands arrivò a Memphis, nel Tennessee, intorno al 1925 e dopo pochissimo tempo erano già parecchi i gruppi che si dedicavano a questo tipo di musica. In quel periodo in città c’era parecchio fermento e i musicisti che suonavano a Memphis, denominata anche la New Orleans del Sud settentrionale, avevano come si dice “parecchio da fare”. Di notte suonavano nei locali di Beale Street, una strada dove i club musicali si alternavano ai locali a luce rossa e di giorno si esibivano nel vicino Handy Park o agli angoli delle strade dove c’era sempre qualcuno disposto ad ascoltarli e a scucire qualche monetina. Le Memphis Jug Bands avevano così tanti impegni musicali che ogni musicista doveva avere un “sostituto ufficiale” e quindi erano tantissimi i musicisti nel “giro” di queste band. Quando il lavoro divenne davvero troppo i gruppi assunsero degli impresari che, spesso, avevano due band con lo stesso nome per poter far fronte alle richieste anche contemporanee di chi voleva quel determinato gruppo. Gli armonicisti erano una figura fondamentale nell’economia musicale delle jug bands. Tre di loro (Will Shade, Noah Lewis e Jed Davenport) erano a capo dei migliori gruppi del genere e, attraverso le loro performance “live” e le loro incisioni, hanno influenzato tutti gli armonicisti venuti dopo di loro.
Gli armonicisti delle band di Memphis svolsero un ruolo importantissimo nello sviluppo futuro dello strumento. Furono loro a “traghettare” l’armonica che fino ad allora suonava una musica fortemente caratterizzata dal folk, dalle imitazioni di treni e altri rumori che erano la prerogativa dei suonatori “popolari”, al ruolo che dopo di loro avrà nel moderno blues. L’armonica diatonica comincerà ad acquisire sempre più importanza come strumento solista, in grado non solo di eseguire la linea melodica di un brano, ma anche di improvvisare veri e propri assoli come qualsiasi altro strumento della band. L’artista che più di tutti fece tesoro degli insegnamenti degli armonicisti di Memphis era anche lui originario del Tennessee e sarà lui l’uomo che “inventerà” quello che presto sarà uno stile imitato da molti: “l’armonica blues in stile Chicago”. Il suo nome era John Lee Williamson.
Come gia scritto precedentemente, fu proprio Lester Melrose che, gestendo le etichette che facevano capo alla RCA Victor, diede dapprima grande credibilità al talento di artisti come John Lee Williamson e Big Bill Broonzy e spronò questi due eccellenti musicisti a creare le basi di un nuovo stile di blues “urbano”. La neonata etichetta Chess, sempre di Chicago, sviluppò poco tempo dopo quello stile affidandolo alla musicalità di Muddy Waters e Willie Dixon, due pietre miliari del blues, che perfezionarono subito quello che diventò ben presto il suono classico del “Chicago blues”. Questi ultimi due grandi artisti hanno saputo, secondo gli storici del genere, trasformare quella che era una “musica di oppressione” in una “musica di liberazione”. A ruota della Chess Records e in seguito al grande successo da questa ottenuta, vennero fondate molte altre etichette discografiche che erano alla ricerca di nuovi talenti musicali ai quali far incidere dischi nelle loro sale d’incisione. Tra le compagnie discografiche molto attive in quegli anni ricordiamo: la States, la Cobra e la Vee Jay. Non appena si sparse la voce che Chicago era diventata una specie di “paradiso commerciale” per la musica blues, molti tra i migliori bluesmen che si esibivano nel sud degli States si trasferirono al nord dove c’erano sì la maggior parte degli studi di registrazione ma soprattutto il denaro, argomento trattato sempre con una certa tristezza dai musicisti blues che avevano spesso le tasche e la pancia vuote. Tra questi bluesmen che arrivarono a Chicago, c’erano anche i grandi Rice Miller (Sonny Boy Williamson II) e Howlin’ Wolf. Non solo per gli armonicisti ma per tutti i musicisti che provenivano dalla zona del Mississippi, la città bagnata dal lago Michigan sembrava davvero la Terra Promessa, dove il lavoro di musicista blues diventava qualcosa di cui davvero andare orgogliosi. Il sogno di tutti gli armonicisti di Chicago in quegli anni era fare parte della band di Muddy Waters. Essere l’armonicista della più popolare e apprezzata blues band di quei tempi equivaleva in termini di prestigio al posto di sassofonista tenore nelle famosissime orchestre di Count Basie e Duke Ellington durante l’epoca d’oro dello swing; infatti, come accadeva per il sassofono nelle orchestre appena citate, nella band di Muddy Waters l’armonica ebbe sempre un ruolo di primo piano. Nonostante ci siano stati bravissimi armonicisti a non essere mai chiamati da Waters a far parte del suo organico strumentale (Snooky Prior e Billy Boy Arnold, solo per citarne alcuni), seguire il succedersi dei suonatori di armonica in quella band aiuta a capire chi fossero i migliori “soffiatori delle venti ance” a Chicago in quegli anni.
Gli studiosi di blues affermano che tre sono state le persone che hanno fatto diventare l’armonica lo strumento principe del blues: Sonny Boy Williamson II, con il suo celebre programma radiofonico; John Lee “Sonny Boy” Williamson, che più di ogni altro ha pensato all’armonica come strumento solista in un periodo in cui l’armonica non godeva certo della fama di oggi e Muddy Waters, nella cui band hanno militato i più bravi e importanti “soffiatori blues”. Del grandissimo Little Walter abbiamo già ampiamente scritto nella scheda biografica a lui dedicata, così come di altri grandi armonicisti che appaiono nella sezione dedicata a “I grandi armonicisti blues”. Vogliamo ora invece raccontare degli altri altrettanto grandi armonicisti che fino alla morte di Muddy Waters hanno fatto parte della sua leggendaria band.
Quando Walter Horton nel 1952 se ne andò, il suo posto venne preso da un giovane musicista di nome Henry Strong. Forse il suo nome non vi dice molto ma in quegli anni Little Walter, che non era certo prodigo di complimenti, andava affermando in giro che quel ragazzo era l’unico che poteva competere con lui nel suonare l’armonica. Di lui, Walter diceva che fosse il miglior armonicista di Chicago, dopo di lui, naturalmente (e peraltro Strong era stato un suo allievo). Purtroppo, la carriera di Henry Strong finì molto presto: nel 1954, a soli 25 anni, quando morì in seguito ad una coltellata ad un polmone. A pugnalarlo era stata la sua fidanzata Juanita per motivi di gelosia. Spirò sul sedile posteriore dell’auto di Muddy Waters prima di arrivare all’ospedale. Sfortunatamente, non ci è rimasto molto della sua musica se si eccettuano alcuni brani registrati accompagnando il pianista Henry Gray e due canzoni incise con Muddy Waters: “ Sad, Sad, Day” e “She’s Alright”. Waters, dopo la scomparsa di Strong, assunse un bravissimo cantante armonicista di nome George Smith. Quest’ultimo però restò nella band solo per pochi mesi, trasferendosi presto a Kansas City, dove incise alcuni memorabili brani per la locale RPM. Tra queste canzoni, due autentiche gemme dal titolo “Blues In The Dark” e “Telephone Blues”. Anche a Kansas City si fermò poco, preferendo stabilirsi definitivamente nella soleggiata California dove visse fino alla sua scomparsa avvenuta nel 1983. Dal 1960 in poi incise diverso materiale per piccole etichette locali e nel 1969 registrò per la ABC Bluesway un disco–tributo composto totalmente da brani di Little Walter. Il suo talento era straordinario e l’inconfondibile suono della sua armonica si rivelava qualcosa di davvero inimitabile per potenza e compattezza. Gli americani, definendolo un “bellissimo suono rotondo”, fanno un’affermazione che ascoltando i suoi dischi assume un significato ben preciso. Purtroppo la sua carriera discografica ha risentito molto del fatto che il grande Smith non risiedesse a Chicago, che in un certo periodo era il posto dove “succedevano le cose”; inoltre, le sue incisioni sotto lo pseudonimo di “Little Walter Junior” e “The Harmonica King”, anziché aiutarlo in termini di pubblicità, hanno creato non poca confusione tra gli storici e gli appassionati di blues. Sebbene la sua eredità musicale sia obiettivamente più povera al confronto di quella di altri armonicisti, la sua influenza sonora è stata importantissima per tanti suonatori di armonica contemporanei. Rod Piazza, Kim Wilson, James Harman, William Clarke e altri, tutti ottimi musicisti, hanno dichiarato più volte che il loro “maestro” d’armonica direttamente o indirettamente è stato il grande George “Harmonica” Smith. Fu James Cotton a sostituire George Smith, questa volta per un periodo decisamente più lungo, nella Muddy Waters Band, quando Smith prese la strada per Kansas City, ma dopo che anche Cotton se ne fu andato per formare la propria band, Muddy fece qualcosa di assolutamente inaspettato per quegli anni (eravamo intorno al 1965): assunse un giovane bianco, bravo cantante-chitarrista e straordinario armonicista di New York: Paul Oscher. Questo bravo armonicista, a detta di molti, viene considerato il primo vero armonicista non di colore a suonare in puro stile “Chicago blues”. Purtroppo Oscher ebbe la sfortuna di capitare nella band di Muddy Waters in coincidenza con il punto più basso a livello artistico mai toccato dalla formazione, che culminò nell’infausta decisione, presa su pressione dei suoi “lungimiranti” discografici di allora, di incidere un paio di album di “blues psichedelico”, sottogenere che naturalmente con la “musica del diavolo” aveva davvero poco a che fare ma che – e a questo punto l’avverbio “incredibilmente” è di rigore – , vendettero parecchio tra gli hippy appassionati di quella musica all’epoca molto in voga. Molto dell’ottimo lavoro svolto in studio da Paul Oscher scomparve così tra chitarre distortissime e effetti sonori di ogni genere in cui il più normale sembrava quello di un wha-wha, ma il bel suono dell’armonica di Oscher si può ascoltare in molti brani del disco-live di Muddy dal titolo: “Live at Mister Kelly’s”. Paul Oscher è attivo ancora oggi. Bravissimo chitarrista slide, nonché pianista fisarmonicista e armonicista si esibisce regolarmente nella sua natia New York con il soprannome di Brooklin Slim. Oscher passò quattro anni nella band di Waters e quando se ne andò fu sostituito per un brevissimo periodo da Carey Bell, dopodichè il suo posto venne preso da Mojo Buford, che rimase nel gruppo fino al 1974. In quell’anno un altro giovane armonicista bianco ricevette una telefonata che cambiò radicalmente la sua vita. Dall’altro capo del telefono c’era il manager di Muddy Waters. “Il tempo si era come fermato per me in quel preciso istante” ricorda oggi Jerry Portnoy. “Ci poteva essere una sola ragione perché quel tipo mi avesse chiamato, il problema era che la mia testa non riusciva ad accettarlo”. Il manager continuò «Muddy è a casa in questo momento e vuole che tu lo chiami, questo è il suo numero…». Feci il numero quasi in trance. «Sei pronto per metterti in viaggio?» mi chiese Muddy senza attendere una risposta. «Cominceremo il tour il 25 maggio da Indianapolis. La band farà le prove questo week-end al Queen Bee Lounge, raggiungili e cerca di imparare al meglio tutti i brani». Dopo la telefonata richiamai di nuovo il manager per essere in qualche modo sicuro di quanto Muddy mi aveva detto. Quest’ultimo non solo mi confermò tutto quanto ma mi disse anche di procurarmi un passaporto perché quel mese stesso saremmo andati a suonare a Parigi. Riappesi il telefono ancora in stato confusionale. Se vuoi fare il medico basta iscriversi ad una buona scuola di medicina e prima o poi lo diventerai, ma per diventare un vero armonicista blues in quegli anni c’era un solo posto dove avresti potuto imparare davvero tutto, ma le probabilità di entrare in quella band erano le stesse di riuscire a vedere ad occhio nudo una rarissima stella cometa. Quando riappesi il telefono uscii di casa senza nemmeno chiudere la porta. Ero così eccitato e pieno di energia che corsi subito dal mio amico che vendeva dischi nel negozio in fondo alla strada e, buttando quasi giù la porta, entrai gridando come un pazzo: Muddy Waters mi ha appena chiesto di entrare nella sua band! Non riuscivo a stare fermo tanta era la felicità: continuavo a girare su me stesso come una trottola. E’ stato davvero uno dei momenti più belli della mia vita, secondo solo in quanto a intensità di emozioni a quando sono nati i miei figli. Non scorderò mai la prima volta che salii sul palco con quella band, allo stadio di baseball di Indianapolis. Il presentatore annuncio: «Signore e signori, la Muddy Waters Blues Band!» E la mia adrenalina salì a mille, tante erano le emozioni che stavo provando in quel momento. Non importa cosa farò d’altro nella vita, ma quando arriverà il momento di andarmene da questa terra, sui giornali scriveranno: Jerry Portnoy – musicista della Muddy Waters Blues Band…”.
Intorno al 1979, Portnoy e buona parte dei musicisti della band di Muddy diedero vita alla Legendary Blues Band. Negli anni più recenti Jerry ha continuato a tenere accesa la fiamma dell’armonica blues suonata in stile Chicago, sia nella sua area di provenienza e cioè Boston e dintorni, dove è diventato una figura di riferimento per decine di armonicisti specialmente dopo l’uscita del suo eccellente metodo per armonica. Nel 1993 Portnoy diventò l’armonicista della band di Eric Clapton, quando il grande chitarrista decise di incidere “From The Cradle”, un album dedicato al blues di Chicago. Con Clapton, Portnoy fece davvero il giro del mondo intraprendendo un tour di successo che lo portò ad esibirsi persino alla Royal Albert Hall di Londra. A tutt’oggi, Jerry continua a collaborare con Clapton sia in studio sia apparendo live nei leggendari concerti del chitarrista inglese. “Con Eric Clapton ho fatto probabilmente i migliori concerti della mia vita, in posti e situazioni dove tutto era perfetto. Con la mia, seppur eccellente, band non sarei mai riuscito a fare la stessa cosa perché purtroppo nella musica il talento e la qualità non sono sempre elementi necessari o meglio, se ci sono, devono essere comunque supportati da una macchina organizzativa che ha molto più a che vedere con il mondo dell’economia e della finanza che non con quello dell’arte e delle emozioni che questa ci fa provare”.
Non tutti i musicisti blues che vivevano e si esibivano nel Sud degli States si trasferirono al Nord durante gli anni della grande migrazione degli afroamericani verso le fabbriche di Chicago e Detroit. Molti resistettero ai richiami del successo che forse sarebbe arrivato trasferendosi in una grande città e continuarono le loro carriere nelle zone rurali del Sud. Furono tanti i bluesmen che incisero per piccole etichette discografiche regionali e seppure non ricevettero la stessa attenzione che era riservata ai musicisti di Chicago, tra di loro ci furono parecchi importanti armonicisti il cui stile finirà comunque per influenzare parecchi suonatori di armonica di oggi. A Memphis, per esempio, continuarono a suonare con successo, sia in sala di registrazione sia nei club, eccellenti armonicisti come Joe Hill Louis e Dr. (Isaiah) Ross, conosciuto anche come “il Boss dell’armonica”. Entrambi erano tra gli ultimi migliori “one man band”, una specie di musicista in via di estinzione che riusciva ad intrattenere il pubblico esibendosi da solo. Erano musicisti che cantavano, suonavano la chitarra, l’armonica che avevano appesa al collo per mezzo del famoso “reggiarmonica” e provvedevano al supporto ritmico suonando con i piedi una grancassa e i piatti di un “charleston”. Ambedue iniziarono la carriera grazie a Sam Phillips ed incisero alcuni brani per la Sun, sempre attenta alla musica “alternativa” di quegli anni. Dr. Ross si trasferì a Flint, Michigan, intorno al 1950 e riuscì a formarsi una nutrita schiera di ammiratori specialmente nella vecchia Europa. La zona del Mississippi ha continuato per anni a sfornare straordinari armonicisti; tra i più famosi ci sono Jerry McCain e Sam Myers. McCain raggiunse un più che discreto successo nel 1961, quando incise per la Ace due brani “She’s Tough” e “Steady”, quest’ultimo destinato a diventare presto uno dei più famosi ed imitati strumentali per armonica. La sua carriera ha subito un nuovo slancio quando rock-blues bands come i Fabulous Thunderbirds hanno cominciato a reincidere le sue canzoni. Sam Myers, che tra il 1950 e 1965 registrò parecchi brani per la Ace, la Fury e la Soft, raggiunse la popolarità per l’ottimo lavoro che fece accompagnando Elmore James nel 1961, che si può ascoltare soprattutto nel brano “Look On Yonders Wall”. Dal 1985 ha ricominciato una nuova carriera riscuotendo molto successo come bravissimo cantante e inimitabile armonicista nel gruppo di Anson Funderburgh: i Rockets. Anche la Louisiana ha contribuito alla causa dell’armonica, dando alla luce eccellenti musicisti. Primo fra tutti Slim Harpo (vedere biografia nel capitolo: “I grandi armonicisti blues”). Seppure abbia inciso poco, credo che valga la pena di citare Papa (Alexander) Lightfoot, che durante una seduta di registrazione per la Imperial nel 1954, definita dai testimoni di allora come “incendiaria”, registrò due brani: “Mean Old Train” e una sporca e “cattiva” versione dell’”inno” di New Orleans, la celeberrima “When The Saints Go Marching In”. Un altro bravo armonicista della Louisiana, che dalla musica di quella terra è stato ampiamente influenzato, è Leslie Johnson, meglio conosciuto come Lazy Lester. In un’intervista al ricercatore John Broven, Lester raccontò di avere acquistato la sua prima armonica e un disco quando lavorava in una drogheria a Baton Rouge, che è la capitale della Louisiana. Si esercitava sempre durante il tragitto che faceva a bordo di un pullman da Scotlandville, dove abitava, a Baton Rouge e in breve tempo riuscì a diventare un provetto armonicista. Il disco che aveva comprato era “Juke” di Little Walter, anche se il suo artista preferito di sempre era Jimmy Reed. L’obiettivo del giovane Lester era comunque quello di ogni vero artista e cioè quello di sviluppare un proprio stile. Intorno al 1956 l’armonicista registra molti brani per il cantante e chitarrista Lightin’ Slim, che incideva per la prestigiosa etichetta Excello, di proprietà di Jay Miller e quest’ultimo fece anche registrare trenta canzoni a Lazy Lester come solista. In quelle tracce è evidente l’influenza di Jimmy Reed nel modo in cui Lester suona la sua armonica. I suoi maggiori successi, anche se purtroppo estremamente contenuti, sono state le canzoni: “Sugar Coated Love” e “I Hear you Knockin’”. Uno dei pochi musicisti di colore tra quelli usualmente chiamati da Jay Miller per le registrazione nella sua sala d’incisione, Lazy Lester suonò parecchio nei dischi di altri artisti spesso come percussionista ma a volte anche come armonicista e chitarrista. Si trasferì anche lui al Nord, nel Michigan intorno al 1960 e lì intraprese il lavoro di operaio nelle fabbriche di auto di Detroit. Grazie ancora una volta ai Fabulous Thunderbirds, che reincisero alcune sue canzoni, intorno al 1980 Lazy Lester ritornò in sala di registrazione e a calcare di nuovo le tavole intrise di blues dei palchi di mezzo mondo.
Purtroppo l’armonica non ha avuto il suo Elvis Presley. La chitarra è divenuta l’icona per eccellenza del primo rock’n’roll anche e soprattutto, perché quello era lo strumento che Elvis teneva al collo. Nel 1955 l’armonica a bocca possedeva tutti i requisiti per diventare uno strumento leader nel “nuovo” rock’n’roll, ma le è mancato un artista davvero carismatico che la suonasse. D’altronde, mostrava i cromosomi giusti per diventare lo strumento principe del genere (che altro non era se non una miscela esplosiva di country-boogie e rhythm and blues, due stili in cui l’armonica è stata per anni lo strumento principale, almeno tra quelli a fiato). Aveva anch’essa, come la chitarra, un certo fascino ribelle che attraeva i giovani e scapestrati rockers di quegli anni e come la chitarra era sempre stata giudicata lo strumento delle classi più povere. E’ anche abbastanza difficile da capire come mai le prime etichette di rock’n’roll abbiano snobbato l’armonica a bocca, considerando che le prime compagnie discografiche che incisero il “genere musicale che sconvolgerà il mondo”, erano le stesse per le quali registravano i migliori armonicisti di blues rurale ed urbano.
Prima dell’immenso successo che ottenne con i dischi di Elvis Presley, la Sun Records di Memphis aveva registrato autentici maestri dell’armonica come Walter Horton, James Cotton, Joe Hill Louis e “Doctor” Ross. Nel 1954, appena pochi mesi prima dell’uscita del primo disco di Elvis, la Sun aveva pubblicato “Rockin’ Chair Daddy” di Harmonica Frank Floyd, da molti considerato come il primo vero brano di rock’n’roll ad essere inciso su disco. Dopo che Elvis lasciò la Sun, il proprietario Sam Phillips decise di lasciare da parte i suoi progetti intorno al blues per dedicarsi alla ricerca di nuovi talenti, possibilmente bianchi e che assomigliassero al giovane Presley da lui scoperto. Tra i tanti giovani rockers che incisero per lui in quegli anni c’era anche un giovane suonatore di musica hillibilly (il country blues “bianco”), anche lui proveniente dal profondo sud. Il suo nome era Billy Lee Riley e sarebbe potuto diventare l’armonicista principe del rock’n’roll.
Eccellente cantante di blues, ottimo chitarrista e valente armonicista, Riley divenne ben presto un musicista “fisso” dello studio di Phillips, accompagnando parecchi musicisti sotto contratto con la Sun Records. Dopo avere inciso come solista i due ottimi brani “Red Hot” e “Flying Saucer Rock’n’roll”, Riley decise di formare un proprio gruppo “The Little Green Men”. L’origine del nome della band era dovuta al fatto che si esibivano vestiti di tutto punto con abiti verdi, la cui tonalità ricordava molto quella di un tappeto da tavolo da biliardo. La band diventò ben presto una delle più formidabili di quegli anni, riscuotendo soprattutto negli States un grosso successo. Purtroppo subito dopo successe un “fattaccio” che fece arrabbiare molto Billy Lee e che gli fece prendere l’amara decisione di abbandonare il mondo della musica. Riley aveva inciso due ottimi strumentali per armonica, “Itchy” e “Thunderbirds”. La Sun Records gli disse di non essere affatto soddisfatta delle canzoni che però poi “inspiegabilmente” fece uscire come composizioni di un altro artista, sotto contratto con la loro etichetta: Sonny Burgess. La delusione fu tale per Billy Lee che si dovrà attendere il 1965 per poterlo riascoltare, anche se incise per la Mercury qualcosa che con il blues e il rock’n’roll aveva poco a che fare: un album strumentale tutto dedicato ai Beatles. Anche la Chess Records di Chicago, in qualche modo la “rivale del Nord” della Sun, decise di partecipare a quella rivoluzione musicale che portava il nome di rock’n’roll. Per distinguersi da quello più rude e selvaggio che proveniva dal Sud, i proprietari dell’etichetta di Chicago decisero di registrare i più “urbani”, a loro avviso, gruppi di musica cosiddetta “doo wop” (così chiamata per il tipico uso dei cori durante le esecuzioni). Tra i primi ad incidere ci furono i Moonglows e i Coronets. La Chess però si sentiva ancora profondamente insicura nell’abbandonare il blues perché per questi nuovi tipi di musica il successo non era per niente garantito. A questo probabilmente si deve la partecipazione di Little Walter ad un paio di brani che i Coronets incisero nel 1954. L’armonica a bocca perse un’occasione d’oro di entrare nella nuova era musicale nello stesso anno, quando non fu “ammessa” alla prima registrazione che Chuck Berry fece per la Chess records. Sebbene la band di supporto di Berry fosse la stessa che usualmente accompagnava l’armonicista Little Walter (con il grande Fred Below alla batteria), nessuno dei “maestri armonicisti” dell’etichetta sembrava interessare ai produttori di Berry e il musicista stesso, pur avendo inciso già parecchi brani blues per l’etichetta, non si era mai giovato delle loro prestazioni. Da quelle registrazioni uscì quel brano di country-blues dal titolo “Maybelline”, che diventerà presto uno dei più grandi successi del novello rock’n’roll, proiettando la Chess tra le compagnie discografiche di maggior successo di quegli anni. Quando ormai la carriera di Chuck Berry era ormai alle stelle, la compagnia di Chicago, così come aveva fatto la Sun del dopo Elvis, si mise alla ricerca di nuovi talenti di colore da lanciare nell’ormai consolidato mondo del rock. La scelta dell’etichetta cadde su quello che veniva considerato “lo sciamano della musica hypno-voodoo”, Bo Diddley, che invece si servì di diversi bravi armonicisti per le proprie incisioni: Lester Davenport, Little Willie Smith ed il giovanissimo Billy Boy Arnold. Proprio il grande successo che ebbe il suono dell’armonica di Arnold nei dischi di Bo Diddley convinse la rivale della Chess, l’etichetta Vee Jay, a mettere sotto contratto Billy Boy che per loro registrò un ottimo disco “I Wish You Would”. In una recente intervista, Arnold ha dichiarato che l’allora influentissima Chess, fece di tutto per non far trasmettere dalle radio il suo disco. Billy Boy e la Vee Jay continuarono comunque a lavorare insieme realizzando canzoni che, poi, come molte altre di questo bravo e sottovalutato armonicista diventeranno classici del blues e del rock: “Rockinitis” e “Kissing at Midnight”, oltre alla già citata “ I Wish You Would”. Purtroppo però, anche per i motivi già riferiti in precedenza, questi lavori passarono tristemente inosservati. La Vee Jay si rifarà qualche tempo dopo con i dischi di Jimmy Reed, che riuscirà a mietere successi sia tra gli amanti del rock sia tra gli appassionati di blues. Il successo commerciale di Reed con brani come “Big Boss Man” fece da apripista per altri armonicisti di colore: il maggior successo del 1960, “Fannie Mae” di Buster Brown, era costruito intorno ad un efficace riff di armonica a bocca e l’anno dopo Slim Harpo scalava le classifiche con “Rainin’ In My Heart”, che conteneva un breve ma ottimo assolo di armonica. Harpo farà il bis portando al successo nazionale la sua “Scratch My Back”, un altro brano segnato dall’inconfondibile marchio della sua armonica. Il rock comunque sembrava in quegli anni davvero poco interessato all’armonica tranne rari sporadici casi. La chiave d’accesso al nuovo mondo musicale pare sia dovuta all’incontro che avvenne nel 1962 tra un giovane chitarrista ritmico di Liverpool e un altro giovane che si era fatto però già le ossa suonando nelle famose dancehalls texane. Delbert McClinton, così si chiamava quest’ultimo, aveva cominciato giovanissimo a suonare la chitarra e a cantare nella natia Forth Worth, cercando di imparare dai dischi lo stile di musica che tanto lo appassionava: il blues suonato da Howlin’ Wolf e John Lee Hooker. Ben presto la sua band diventò la scelta quasi obbligata per i grandi bluesmen che necessitavano di essere accompagnati da formazioni del luogo durante i loro concerti. “Una sera” ricorda Delbert “dovevamo accompagnare Buster Brown e Jimmy Reed, cioè due dei miei armonicisti preferiti. Avevo portato con me un’armonica dicendomi «magari stando con loro imparo qualcosa». Eravamo tutti seduti nel camerino aspettando l’inizio dello spettacolo e tutti bevevano whisky in quantità industriale. Io, all’epoca, ero ancora completamente astemio, loro mi convinsero a bere e io mi ubriacai a tal punto che sprofondai in un profondo sonno che non mi permise di partecipare allo spettacolo che avevo aspettato per mesi e mesi”. Questo episodio portò comunque fortuna al giovane McClinton, perché qualche mese dopo era già un provetto armonicista e la sua superba interpretazione di un brano di Sonny Boy Williamson II, “Wake Up Baby”, fu il primo disco di un artista bianco a essere trasmesso dalla KNOK, la radio degli afroamericani di Forth Worth. Fu sempre McClinton a suonare quella particolare frase all’armonica nel grande successo internazionale che ebbe Bruce Channel con la sua “Hey Baby”. Era il 1962. Quando Channel venne invitato in Inghilterra per un tour, quest’ultimo decise di portare con sé anche il giovane Delbert che, giunto a destinazione, si stupì non poco nel vedere tanti musicisti inglesi appassionati all’armonica e al blues. Sembrava che l’armonica a bocca in parte dimenticata negli States, si stesse vendicando andando a riprendersi il ruolo di primo piano che aveva avuto per anni e ritornando ad essere lo strumento principe del blues. Come ricordò McClinton in un’intervista concessa alla giornalista Susan Crane “Ogni band di quegli anni e non sto esagerando, aveva qualcuno in formazione che suonava l’armonica. Tutte le sere nel camerino prima o dopo lo spettacolo di Channel, arrivava qualche giovane musicista chiedendomi di insegnarli qualcosa con l’armonica… Una sera i Beatles erano la band di apertura del concerto di Bruce Channell. Io non sapevo assolutamente chi fossero e che tipo di musica suonassero. Però c’era una ragazza che mi aveva detto: «Devi assolutamente ascoltarli questi Beatles, sono la band più elettrizzante di tutta l’Inghilterra». E, in effetti, lo erano. Indossavano tutti una bellissima giacca di pelle nera. Uno di loro dopo il concerto mi chiese di dargli qualche consiglio tecnico su come si suonasse l’armonica in maniera appropriata e io gli dissi che gli avrei insegnato qualcosa se in cambio mi avesse rivelato dove compravano le loro bellissime giacche. Il giorno dopo ero già a Londra per comprarmi una giacca di pelle nera alla moda”.
John Lennon era il nome di quel ragazzo con la giacca di pelle a cui McClinton aveva cercato di spiegare i segreti della “seconda posizione” sull’armonica a bocca. Gli eroi musicali di Lennon, all’epoca, erano quelli che lui considerava più attenti alla melodia: musicisti come Buddy Holly (anche lui texano come Delbert) e gli Everly Brothers erano i suoi punti di riferimento. Infatti, Lennon era attratto non tanto dal suono blues dell’armonica ma dal fatto che Delbert riuscisse con quello strumento ad ottenere accattivanti frasi melodiche che avrebbero potuto essere inserite nelle canzoni per ottenere un diverso e originale riscontro presso il giovane pubblico dei Beatles. I primi grandi successi del celebre quartetto sono tutti contraddistinti dal suono dell’armonica: “Love Me Do”, “Please, Please Me” e “From Me To You”. Dal 1963 al 1965, i Beatles incideranno circa dodici canzoni che vedono l’armonica tra gli strumenti utilizzati. Durante il primo, mitico tour dei Beatles in America John Lennon dichiarò a tutti i giornalisti che il suo musicista preferito era il bluesman Sonny Terry. L’anno seguente il quartetto di Liverpool cambiò radicalmente il suo assetto musicale e l’armonica sparì per sempre dalle loro canzoni. Nemmeno durante la sua carriera solista Lennon ritirerà fuori dal cassetto la sua armonica a bocca. Sebbene alfieri di un rock-pop che poco aveva a che vedere con il blues (nonostante le dichiarazioni di Lennon), i Beatles ebbero il grande pregio di aprire le porte degli States alla ormai famosa “British Invasion”, durante la quale decine di gruppi “riportarono a casa” il blues creando le basi per quello che presto verrà etichettato come rock-blues e riportando in auge i vecchi leoni della “musica del diavolo”, che erano stati un po’ dimenticati nel loro Paese d’origine. Già intorno al 1960, i tour inglesi di musicisti come Big Bill Broonzy, Muddy Waters e Little Walter avevano riscosso un enorme successo specialmente tra i più giovani che erano letteralmente impazziti per il blues dei neri. Nel giro di pochi mesi erano almeno sei i piccoli club che a Londra davano spazio alle giovani band innamorate del “Chicago blues”. Uno dei primi a diventare un punto di riferimento come musicista per i suoi colleghi un pochino più giovani fu il grande Alexis Korner che si esibiva con l’armonicista Cyril Davies. All’inizio, i due suonavano come duo acustico ma nel 1961, dopo la scoperta da parte di Davies della musica di Little Walter, Cyril e Alexis decisero di reclutare due giovani ma bravi musicisti: il batterista Charlie Watts e il bassista Jack Bruce. Il nome che diedero alla band fu “Blues Incorporated”. All’inizio del 1962 Korner e Davies decisero di aprire un loro piccolo locale, l’”Ealing Club” (chiamato anche “Roadhouse”), che divenne ben presto il posto preferito da tutti quei musicisti emergenti nel cui corpo bruciava un’anima blues. Tra questi giovani di belle speranze c’erano Mick Jagger, che diventò presto il cantante solista dei Blues Incorporated, Keith Richard, Brian Jones, Long John Baldry, Eric Burdon e Rod Stewart (la cui prima registrazione fu nel ruolo di armonicista nel disco di successo che Millie Small piazzò nelle classifiche del 1964). I Blues Incorparated si sciolsero nel 1963. Davies fondò una nuova band, la “Cyril Davies All Stars”, che in quegli anni comprendeva il pianista Nicky Hopkins e i chitarristi Jimmy Page e Jeff Beck. Il gruppo ebbe subito un grosso seguito tra il pubblico dei blues lovers e registrò quattro canzoni per la Pye Records ma, destino crudele, il 7 gennaio 1964 – proprio quando il “british blues” che in qualche modo Davies e Korner avevano “inventato” cominciava ad avere un grande e meritato successo – Ciryl Davies muore di leucemia. Charlie Watts dichiarerà commosso al giornalista Pete Goodman: “Cyril è stato un grande dell’armonica”. La band a questo punto si sciolse e insieme a Charlie Watts e Mick Jagger cominciarono a suonare Keith Richard e Brian Jones. Non passerà molto tempo e i quattro, con l’ingresso del bassista Bill Wyman, diventeranno i Rolling Stones. L’influenza dei Blues Incorporated sui musicisti e sulla musica di quegli anni non sarà seconda a nessuno, nemmeno ai Beatles. Come già affermato da Delbert McClinton, in quegli anni non c’era band che non avesse qualcuno nella formazione che suonasse l’armonica. Keith Relf suonava l’armonica con gli Yardbirds, Eric Burdon con gli Animals, John Mayall con i suoi Bluesbreakers, Ray Davies e Denis Payton nei Kinks, Rick Huxley nei Dave Clark Five. Sebbene il più bravo di tutti all’armonica fosse John Mayall, gli armonicisti inglesi che avevano più successo in quegli anni erano due allievi di Cyril Davies: Mick Jagger e Brian Jones, che suonavano in un gruppo che aveva preso il nome da una canzone di Muddy Waters: i Rolling Stones. Mick Jagger e Keith Richards, considerati da molti il cuore creativo degli Stones, frequentavano la stessa scuola superiore e vi si recavano servendosi del medesimo treno. I due diventarono grandi amici quando Richard vide Jagger girare per i vagoni con un ellepi di Little Walter sotto il braccio. Non servì molto per farli diventare inseparabili trascorrendo diverso tempo insieme strimpellando l’uno la chitarra e l’altro l’armonica. Dirà Richards nel 1971 ad un giornalista: “Quello che cercavamo di fare era di suonare qualcosa di Little Walter e Chuck Berry… Più tardi scoprimmo il grande Slim Harpo e proprio in quel periodo venimmo a sapere dell’apertura di un locale dove si suonava il blues e il cui proprietario Cyril Davies era un fantastico armonicista. E proprio lì all’Ealing Club, i due fecero amicizia con un altro appassionato di musica afroamericana, Brian Jones. “Era un musicista davvero incredibile, poteva suonare qualsiasi strumento” disse un giorno Keith Richards al rock magazine “Rolling Stone”. “Uscii di casa una mattina mentre Brian stava provando a tirare fuori qualcosa da un’armonica e quando sono tornato alla sera beh, Brian era già diventato un provetto armonicista. Da quel giorno lui e l’armonica diventarono inseparabili. Per trovare Brian bastava seguire il suono della sua armonica”. Nei primi anni della loro carriera oltre ad aprire i concerti per molti dei loro idoli d’oltreoceano, le giovani “pietre rotolanti” furono ingaggiate anche per accompagnare Bo Diddley e Little Walter nelle loro tournèe inglesi. Il loro primo singolo, una versione del brano di Chuck Berry “Come On”, si avvale dell’efficace contributo dell’armonica di Brian Jones e il loro album di debutto contiene eccellenti rifacimenti di canzoni provenienti dal repertorio di Slim Harpo e Jimmy Reed. Quando nel 1964 visitarono per la prima volta gli Stati Uniti, la prima cosa che vollero fare era registrare qualcosa nei mitici studi dell’altrettanto leggendaria Chess di Chicago, la compagnia discografica dalla quale provenivano tutti i dischi dei loro idoli. Chuck Berry, Muddy Waters, Junior Wells, Little Walter, Howlin’ Wolf, Rice Miller (Sonny Boy Williamson II) e Willie Dixon erano tutti lì a guardare questi assatanati giovani musicisti inglesi assaporare con tremenda eccitazione l’aria delle sale di registrazione dove erano state incise quasi tutte le loro canzoni preferite. Racconta un aneddoto, tra realtà e leggenda ovviamente, che quando la band arrivò negli studi della Chess, vide un tale che stava dipingendo le pareti dei locali. I quattro inglesi non poterono non notare quanto questo imbianchino assomigliasse proprio al loro idolo Muddy Waters; chiesero allora alla persona che li accompagnava chi fosse quel tipo. Alla risposta che “l’imbianchino” era proprio lui, il grande bluesman, i Rolling Stones ebbero uno shock fortissimo. Ma fu loro spiegato che Muddy Waters aveva avuto delle anticipazioni di denaro per dischi che non erano andati commercialmente bene e quindi si era accordato con i fratelli Chess che avrebbe restituito la somma che gli era stata data in più facendo dei lavoretti per la compagnia discografica. Tutto questo aprì gli occhi ai giovani Stones su quella che era la situazione all’interno del mondo del blues negli Stati Uniti… Gruppi britannici come loro, gli Animals, i Them di Van Morrison, gli Yardbirds, i Fleetwood Mac, i Bluesbreakers di John Mayall con Clapton alla chitarra, faranno presto riscoprire all’America bianca e benpensante il prezioso tesoro musicale che da sempre si suonava nei suoi cortili o agli angoli delle strade: il blues.
#ilblues #blues #fabriziopoggi #armonica #armonicablues #harmonica