IL FATTO QUOTIDIANO di Sergio Mancinelli
Fabrizio Poggi è un musicista, ma anche giornalista e scrittore: Il soffio dell’anima e il recente: Angeli perduti del Mississippi – storie e leggende del blues, che sta dedicando la sua vita alla musica in presa diretta, con un lavoro: sul campo di ricerca delle radici più autentiche e in studio di registrazione suonando con alcuni tra gli interpreti leggendari del blues. Fabrizio ha ripercorso le orme lasciate da Alan Lomax, il più importante etnomusicologo statunitense, l’uomo che negli anni ’40 con un registratore grosso come un frigorifero sul tetto della macchina, girò tutti gli Stati del Sud alla ricerca delle radici di quel suono che gli afroamericani avevano portato in America e che lo aveva affascinato, tanto da non riuscire più a liberarsene.
Daal sito Historias del Blues (Colombia) di Diego Luis
Historias del Blues
Un espacio para los amantes del blues Este libro es una suerte de diccionario y contador de historias. Como bien lo dice su nombre, contiene historias y leyendas del blues narradas por el italiano Fabrizio Poggi, intérprete de armónica y gran investigador del blues, no solo de la escena de su país natal sino también del mundo entero. De una manera interesante, Poggi va metiendo al lector en el mundo del blues a través de algunos de sus términos más recurrentes, en los que se ajusta la publicación al sentido de lo que es un diccionario. Sin embargo, el autor no se queda en la simple definición de las palabras sino que busca la forma de ejemplificarla, bien sea con la manera en que fue utilizada en una canción o en el contexto cultural del desarrollo de las comunidades que encontraron en el blues un medio de expresión. En este sentido aplica la idea del libro como medio para narrar historias.
También encontramos biografías de algunos artistas míticos del blues, como Muddy Waters, Robert Johnson, Howlin’ Wolf o Sonny Boy Williamson, narradas de forma inspiradora, de manera tal que no se pierde el encanto de las leyendas que se han tejido a su alrededor.
“Angeli perduti del Mississippi” es un libro que ser encuentra a medio camino entre una investigación antropológica y la crítica musical, es una publicación que permite encontrar la riqueza de una cultura que supo hallar en la música la manera de contar sus leyendas y sus historias que salían del alma.
Intervista di Roberto G. Sacchi a FABRIZIO POGGI – ANGELI PERDUTI DEL MISSISSIPPI
Cominciamo il viaggio dentro “Angeli perduti del Mississippi”. Perché questo libro? Cosa vuole significare per te e per chi lo leggerà?
Immaginate che il blues, il canto afroamericano per eccellenza, non sia solo una musica bellissima, come peraltro è, ma anche un luogo dell’anima dove si possono incontrare personaggi misteriosi e leggendari, un luogo quasi magico in cui dietro al nome di ogni strada si nasconde il mistero di una storia. Una storia a volte cupa a volte divertente, ma sempre affascinante. Una storia che a volte è racchiusa in una parola o in un modo dire arcaico, evocativo e seducente. Questo è un altro di quei libri che mi sarebbe piaciuto leggere quando trent’anni fa mi sono avvicinato al blues. Un libro fatto di parole semplici, semplici come la musica che descrive, ma anche un libro pieno di passione, quella che c’è dentro il mio cuore quando suono il blues. Questo libro è una guida, o come dice il grande e indimenticabile Ernesto De Pascale nella sua introduzione, un navigatore satellitare dei sentimenti per visitare con gli occhi del cuore quel luogo dell’anima che si chiama blues. Un luogo in cui incontrerete chitarre e armoniche a bocca, treni da prendere al volo, musicisti che hanno venduto l’anima al diavolo e distillatori di whisky di contrabbando che cantano come angeli, angeli perduti del Mississippi alla ricerca della propria anima blues.
Ma questo libro potrebbe essere anche un romanzo giallo, un noir, in cui però i protagonisti non sono né buoni né cattivi, perché nel blues non ci sono buoni e non ci sono cattivi. Ci sono solo storie da raccontare..
E vediamole un po’ alcune di queste storie…
Sono storie che parlano di whiskey di contrabbando e bevande micidiali, che parlano di dadi e carte truccate, di armoniche a bocca, pistole e coltelli, di chitarre suonate facendo scorrere colli di bottiglia spezzati sul loro manico; di famigerate prigioni del Mississippi in cui c’era sempre un secondino che prima o poi avrebbe scritto con la frusta il suo nome sulla schiena dei prigionieri. Storie che parlano di misteriose fotografie di bluesmen che appaiono e scompaiono e di un leggendario musicista che ha addirittura tre luoghi in cui è sepolto. E poi ancora storie che parlano di sortilegi vudù e di talismani prodigiosi che si chiamano mojos. Storie che spesso mi hanno raccontato i bluesman autentici che ancora oggi abitano il Mississippi. Argomenti affascinati e coinvolgenti che mi hanno conquistato tanti anni fa e che spero conquistino anche voi.
Il tuo libro è ordinato come un dizionario, alfabeticamente. Perché questa scelta?
Perché nel blues dietro ogni parola c’è una storia. Perché il lettore ha così due diversi modi di utilizzo: può leggerlo tutto d’un fiato come se fosse un romanzo oppure può consultarlo come se fosse un vocabolario. Ho cercato di spiegare quel linguaggio misterioso che gli afroamericani avevano inventato per non farsi capire dai padroni bianchi. Non va dimenticato che negli anni in cui il blues è stato inventato nelle piantagioni di cotone del sud degli States ai neri era impedito di comunicare tra loro. Il blues era spesso il veicolo che i neri usavano per comunicare tra loro sentimenti, paure, speranze, delusioni. Ma non mi sono fermato lì. Perché in questo libro racconto anche che il blues ha una storia che ci porta in Africa perché le sue radici sono profondamente conficcate in quel continente meraviglioso e tormentato. Una terra tanto bella da mozzare il fiato. Eppure, da sempre, una terra ferita e martoriata. Una terra da cui sono partiti in catene i padri di quegli uomini che da un dolore infinito hanno saputo tirare fuori dalle acque fangose del Mississippi il blues, la madre di tutte le musiche. Uomini che hanno inventato una musica che è una medicina. Una medicina capace di guarire tutte le tristezze del mondo. E per farlo, quegli uomini saggi e coraggiosi, hanno trasformato i loro tamburi in chitarre e i loro flauti di legno in armoniche a bocca.
Molto bella la copertina del libro. Ce ne parli?
Il musicista raffigurato in copertina è l’immortale Mississippi John Hurt, un musicista davvero unico e mai troppo osannato. E chi più di Mississippi John Hurt è un angelo perduto del Mississippi? Steve LaVere, uno dei più grandi esperti di blues, mi ha raccontato che dietro ai modi dolci e al sorriso disarmante del buon vecchio Mississippi John Hurt si celava un provetto distillatore di moonshine ovvero il whiskey di contrabbando. Uno dei migliori del Mississippi. Quando Steve LaVere ed altri appassionati lo riscoprirono durante il blues revival degli anni Sessanta ad Avalon, sempre in Mississippi, quasi gli fecero prendere un colpo. John Hurt pensava che LaVere e i suoi compagni, giovani bianchi ben vestiti, fossero agenti della finanza arrivati a mettere fine alla sua ormai lunga carriera di abile contrabbandiere di whiskey. Quando vide arrivare questi signori giovani bianchi e ben vestiti pensò: “Ahi, questa volta mi hanno beccato davvero”. Quando uno di loro gli disse che lo avrebbero portato a Washington, lui andò in casa baciò moglie e figli e cominciò a preparare la valigia. Solo dopo un bel po’ chiarirono l’equivoco, in effetti loro lo volevano portare a Washington ma non per metterlo in galera per contrabbando di whiskey ma bensì per fargli incidere dei dischi. E non è quindi un caso che sia lui il musicista che compare sulla copertina del libro disegnata da uno dei più grandi disegnatori di tutti i tempi, il leggendario Robert Crumb. Non è stato facile per il mio editore avere un suo disegno, perché Crumb non è una persona facile e soprattutto non è uno che associa i propri disegni a qualsiasi cosa gli venga proposta. Ha voluto che l’editore gli traducesse almeno una parte del libro in inglese e solo dopo averla letta ha detto: “Ok mi piace potete usare il mio disegno. Per me avere un suo disegno in copertina è un altro sogno diventato realtà.
Sulla quarta di copertina c’è una frase “Chi non ama il blues ha un buco nell’anima” (inciso sul muro di un vecchio negozio di dischi del Mississippi). E’ vero?
Eh, si. Un po’ è vero. Quella è una scritta che io ho visto incisa sul muro di un vecchio negozio di dischi del Mississippi. Quando chiesi al proprietario del negozio chi l’aveva scritta lui mi disse: “Non lo so è sempre stata lì”. E poi aggiunse: “Quella è una frase che tutti i bluesman dicevano”. E un’ altra cosa dicevano o meglio insegnavano un tempo i bluesmen più navigati a quelli meno esperti, una cosa che vale ancora oggi e cioè che nel blues, come e più che in altre musiche, i silenzi e le pause sono importanti almeno quanto la musica. I musicisti dicevano spesso che “less is more – meno è di più” ovvero che non era importante il numero o la velocità delle note suonate ma la qualità di ogni singola nota. Bisognava scegliere in mezzo a tante la nota giusta, la nota che emozionava, che colpiva al cuore. E solo dopo anni un musicista di blues riusciva a capire qual’era la nota giusta da suonare, ma quando si arrivava lì voleva dire che si era davvero pronti, pronti per suonare il blues! Chi non ama il blues ha un buco nell’anima. E se arriverete all’ultima pagina del libro scoprirete perché darete ragione a chi a ha scritto quella frase sul muro del negozio.
E a proposito di anima, sia il tuo disco precedente, sia quello appena uscito hanno un denominatore comune: la spiritualità. Una scelta che è un’altra storia da raccontare, vero?
Ai padroni delle piantagioni non piaceva che gli schiavi cantassero il blues. Li vedevano ballare e cantare il blues, e in quei momenti i neri sembravano davvero liberi. Troppo liberi. Son House un famosissimo bluesman raccontava: «Ci dicevano se suonate il blues andrete dritti all’inferno. E noi ci credevamo. Però il blues ci piaceva troppo. Allora, abbiamo preso dei brani tratti dalla Bibbia e abbiamo cominciato a cantarli come se fossero dei blues…». Così, in questo modo nacquero gli spirituals. E questo che vi suono con una vecchia armonica per salutarvi è uno spiritual antichissimo e insegna che cantando e battendo le mani, il Paradiso, ancora oggi, sembra un po’ più vicino…
Però è vero, il fatto che sia ordinato alfabeticamente non impedisce di leggerlo come un romanzo, pagina dopo pagina?
Guarda, amici miei hanno provato e garantiscono che è vero. Uno, in particolare, mi ha detto che nella durata di un viaggio da Milano a Venezia se l’è divorato tutto d’un fiato da Milano a Venezia, dalla lettera A fino alla T. Credo che questa particolarità risieda soprattutto nella grande spiritualità che circonda il blues, quella grande anima che respira collettivamente e ha una grande forza unitaria… Tutte le storie contenute nel libro sono storie a sé ma fanno parte di un disegno comune.
Dai, allora facciamo un gioco. Io dico una lettera dell’alfabeto e tu mi dici cosa ti fa venire in mente… Se dico “C”?
CROSS ROAD BLUES, senza dubbio… Qualche tempo fa ho fatto uno dei miei tanti pellegrinaggi in Mississippi. Ho il privilegio di suonare nei locali dove il blues è nato.
Per chi mi segue già da un po’ sa che durante tutti questi anni ho avuto delle esperienze bellissime e che ho avuto, il privilegio di suonare con molti dei miei eroi musicali. Sia dal vivo che sui dischi. Ma l’emozione più grande, quella che mi porterò per sempre appresso, l’ho avuta un pomeriggio a Greenwood un paesino sperduto del Mississippi. Di solito io e il mio socio durante quel tour suonavamo soprattutto alla sera ma lì a Greenwood suonavamo di pomeriggio. Eravamo a suonare in un locale in cui c’era gente di ogni età: giovani, famiglie, anziani, bambini. Tutti neri. Tranne noi. Durante una pausa tra il primo e il secondo tempo del concerto mi si avvicina una signora afroamericana di una certa età. Avrà avuto 78, 80 anni; più o meno l’età di mia madre. Mi prende per un braccio, lo stringe leggermente e poi mi dice: Hey man- you’ touched my heart – mi hai toccato il cuore… Ebbene quella signora che sicuramente non sapeva che fossi italiano e che forse non sapeva nemmeno dove fosse l’Italia, perché forse non solo non era mai uscita non solo dal Mississippi, ma forse nemmeno dalla sua contea, mi aveva dato, senza saperlo, la più grossa soddisfazione della mia vita. Se ci dovesse essere un università del blues ebbene quella signora quel giorno mi diede la laurea. Ma soprattutto mi fece capire che quando suonavo il blues ero uno di loro. Avevo finalmente imparato la lingua del blues. E che tutti i sacrifici che ho fatto in questi anni per portare la mia musica un po’ ovunque erano serviti a qualcosa. Erano serviti a toccare il cuore di una signora dall’altra parte dell’oceano. Una signora che probabilmente nella sua vita aveva ascoltato solo blues… E tanto mi basta.
Ma tornando alla lettera C e a Cross Road Blues ecco, viaggiando di notte su queste stradine di terra battuta circondate solo da campi di cotone e illuminate da una pallida luna, mi sono reso conto di cosa poteva voler dire essere un povero ragazzo di colore nei primi decenni del secolo scorso quando per i neri in tutto il Sud degli States c’era il coprifuoco. Quando faceva buio, trovarsi come cantava Robert Johnson nella sua famosa canzone, ad un incrocio sperduto nelle campagne del Mississippi era davvero pericoloso. Quelli erano anni in cui per impiccare o imprigionare un nero ci voleva veramente poco, nessuno avrebbe protestato. E capitava sovente che i neri fossero circondati da gruppi di bianchi ubriachi che volevano divertirsi con loro magari linciandoli o impiccandoli ad un albero, facendoli diventare quegli “strani frutti” di cui canterà qualche anno dopo la grande Billie Holiday. Ebbene spesso i neri, con la paura che li paralizzava, tiravano fuori dalla tasca della loro tuta da lavoro l’armonica e cominciavano a suonare e a ballare divertendo i bianchi ai quali spesso passava la voglia di “divertirsi con loro”.
E allora il suono dell’armonica diventava davvero un grido disperato nella notte. Un grido per salvarsi la vita, al crocicchio, al cross road.
Un lungo capitolo del tuo libro è dedicato al blues inglese. Per molti, questo potrebbe essere sorprendente. Ci spieghi perché invece non lo è, o perlomeno non lo è del tutto?
Per parlare di quanto il blues sia stato fondamentale nella nascita del rock potremmo prendere ad esempio due ragazzi londinesi di nome Mick Jagger e Keith Richards, che suonavano in un gruppo che aveva preso il nome da una canzone di un grande bluesman Muddy Waters: i Rolling Stones. Mick Jagger e Keith Richards frequentavano lo stesso liceo e ci andavano usando lo stesso treno. I due diventarono grandi amici quando Richards vide Jagger girare per i vagoni con un ellepì del leggendario armonicista Little Walter sotto il braccio. I due diventarono presto diventare inseparabili, trascorrendo diverso tempo insieme e strimpellando l’uno la chitarra e l’altro l’armonica. Quando nel 1964 i Rolling Stones già famosissimi visitarono per la prima volta gli Stati Uniti, la prima cosa che vollero fare, fu registrare qualcosa nei mitici studi dell’altrettanto leggendaria Chess di Chicago, la compagnia discografica dalla quale provenivano tutti i dischi dei loro idoli: Chuck Berry, Muddy Waters, Junior Wells, Little Walter, Howlin’ Wolf, Sonny Boy Williamson II eccetera. Racconta un aneddoto, tra realtà e leggenda, che quando la band arrivò negli studi della Chess, vide un tale che stava dipingendo le pareti dei locali. I quattro inglesi non poterono non notare quanto questo imbianchino assomigliasse proprio al loro idolo Muddy Waters; chiesero allora alla persona che li accompagnava chi fosse quel tipo. Alla risposta che “l’imbianchino” era proprio lui, il grande bluesman, Muddy Waters i Rolling Stones ebbero uno shock fortissimo. Quando si ripresero, fu loro spiegato che Muddy Waters aveva avuto delle anticipazioni di denaro per dischi che non erano andati commercialmente bene e quindi si era accordato con la casa discografica per restituire la somma che gli era stata data in più facendo dei lavoretti. Tutto questo aprì gli occhi ai giovani Stones su quella che era la situazione all’interno del mondo del blues negli Stati Uniti… Gruppi britannici come loro, gli Animals di Eric Burdon, i Them di Van Morrison, gli Yardbirds, i Fleetwood Mac, i Bluesbreakers di John Mayall con Clapton alla chitarra, faranno presto riscoprire all’America bianca e benpensante il prezioso tesoro musicale che da sempre si suonava nei suoi cortili o agli angoli delle sue strade: il blues. E oggi noi sappiamo che quella è stata sicuramente prima la scintilla e poi la fiamma senza la quale il rock non solo non sarebbe esploso, ma forse nemmeno nato. Ma questa è un’altra storia…
E se dico H?
H COME HOBO. Un termine che non appartiene solo al blues ma a tutto l’immaginario collettivo folk statunitense. Ed è una di quelle parole che appartengono al linguaggio dei poveri d’America, al di là del colore della pelle. Il termine si può tradurre in italiano come “girovago, vagabondo, nomade, randagio, ambulante e…”. I primi hobos furono i braccianti agricoli che già dalla metà dell’Ottocento si spostavano da un posto all’altro alla ricerca di lavoro. Hobo deriva dalla contrazione di “hoe-boys”. E siccome hoe (scritto AKKA O E) in italiano significa zappa ecco che gli hobos diventano i “ragazzi della zappa”. Così come i loro colleghi cowboys erano i “ragazzi delle mucche”. Gli hobos si spostavano non solo per lavorare nei campi ma anche per trovare lavoro nei cantieri ferroviari, nelle miniere, nelle fabbriche del nord. Molti di loro erano boscaioli mentre altri trovavano impiego nelle compagnie addette alla costruzione degli argini dei fiumi. Dalla metà dell’ottocento fino al 1935 circa, passando quindi per il tragico periodo della Grande Depressione, più di 15 milioni di hobos si spostarono da un capo all’altro dell’America in cerca di lavoro. Il loro mezzo di trasporto preferito erano i treni merci sui quali, naturalmente, viaggiavano clandestinamente, spesso braccati dai ferrovieri stessi o dai famigerati “vigilantes”, un mezzo sicuramente veloce ma molto pericoloso, specialmente se lo si prende mentre la locomotiva sta correndo. E, purtroppo, molti di loro persero un braccio o una gamba o a volte la vita stessa proprio a causa di un incidente ferroviario. Lo spirito degli hobos era uno spirito libero. Oggi qua domani là senza briglie e senza legami. Non sempre erano ben visti per il loro stile di vita stravagante, zingaro senza legami né padroni. Molti fra loro erano musicisti, spesso bluesmen, che correvano da un capo all’altro dell’America portando le loro canzoni nei campi e nelle fabbriche. I due musicisti hobos più famosi sono sicuramente Woody Guthrie e Robert Johnson.
Dal sito ONDA ROCK www.ondarock.it – Corey
Il blues dall’Alabama allo Zydeco, in rigoroso ordine alfabetico.
Pubblicato da Meridiano zero nella collana Mappe musicali, Angeli perduti del Mississippi dell’armonicista Fabrizio Poggi è molto più di un semplice viatico alla cosiddetta musica del diavolo, ma è un vero e proprio viaggio ragionato nel ramificato universo del blues tra radici storico-geografiche (l’area del Delta), varianti regionali (Mississippi, Piedmont, Texas), suggestioni magiche (le pratiche hodoo), evoluzioni urbane (Chicago, Detroit, Memphis) e derivazioni europee (British Blues). Senza tralasciare le maggiori personalità (Robert Johnson, Muddy Waters, Sonny Boy Williamson I e II, Willie Dixon) di un genere musicale che in tre accordi e dodici battute ha saputo racchiudere tutte le sfumature del sentire umano.
Nella sua argomentazione per voci, Poggi fa piazza pulita di un bel po’ di equivoci e luoghi comuni che condizionano la percezione del blues come musica intrisa di una tristezza immedicabile e come genere irrimediabilmente monocorde: trattando le numerose declinazioni che la matrice ha ricevuto a seconda delle singole realtà in cui ha attecchito, Angeli perduti del Mississippi rivela la straordinaria varietà di inflessioni e coloriture del genere. Si passa dalla viscerale ruvidezza del Delta (regione situata a nord dello stato del Mississippi e nella parte orientale dell’Arkansas, da non confondere con la foce del fiume) alle asprezze elettriche di Chicago e dalle ibridazioni jazz e swing di Kansas City (nonché del West Coast Blues di T-Bone Walker) alle sonorità morbide e rilassate dello Swamp Blues della Louisiana. Ce n’è per tutti i gusti, insomma.
Ma a rendere la cartografia musicale di Poggi un autentico gioiello è soprattutto l’attenzione rivolta ad aspetti meno trattati e assolutamente cruciali nella significazione e nella diffusione del filone: il carattere allegorico del double talk (o jive o signifying) nei testi dei bluesmen, l’importanza dei juke joints (gli spartani locali del sud degli States), delle prime trasmissioni radiofoniche dedicate al genere (la leggendaria King Biscuit Time), dei concerti itineranti (l’American Folk Blues Festival), dei raduni annuali (il Newport Folk Festival) e soprattutto la fioritura di etichette discografiche grandi e piccole (Chess, Bluebird, Trumpet) che hanno sdoganato un genere inizialmente destinato e circoscritto al pubblico afroamericano (a tal punto che i dischi di jazz e blues negli anni Venti e Trenta venivano definiti race records).
Stante l’equilibrata misura della trattazione (voci snelle, esposizione limpida e un dettagliato indice analitico), non mancano però amplificazioni e accentuazioni personali: il lungo capitolo dedicato a Bob Dylan testimonia non solo il ruolo chiave svolto dal cantautore di Duluth nella rielaborazione della tradizione blues e spiritual ma anche la genuina ammirazione dell’autore; e la partecipazione con cui sono descritte le travagliate vicende dei più grandi armonicisti (Sonny Boy Williamson I e II, Little Walker, Sonny Terry, Junior Wells) tradisce l’amore per lo strumento d’elezione di Poggi. L’unica pecca che si può rimproverare a un libro prezioso quale Angeli perduti del Mississippi è un’eccessiva ritrosia ad approfondire le componenti squisitamente tecniche che differenziano i vari stili di blues ma, considerando che si tratta di una pubblicazione non specialistica, la decisione di non calcare troppo la mano è più che comprensibile. Un libro da leggere tassativamente con You Tube a portata di mano per godersi i brani citati. Everybody understand the blues.
Da ALIAS inserto de IL MANIFESTO – Guido Festinese
Angeli del Mississippi.Il significato ritrovato della musica black
…Un altro testo significativo sul blues, Angeli perduti del Mississippi/Storie e leggende del blues (Meridianozero Edizioni). Ne è autore Fabrizio Poggi, un nome ben noto anche in ambito musicale: Poggi è un eccellente armonicista, all’opera sia in campo blues, sia nella ricerca sulle nostre musiche popolari e di tradizione orale. La particolarità del testo è di essere organizzato come un vero e proprio prontuario alfabetico del blues, dalla «a» di «Alabama» alla zeta di «Zydeco», il blues degli afroamericani creoli della Louisiana. Nel mezzo ci trovate di tutto: biografie condensate dei grandi protagonisti, spiegazioni di come il termine «banjo» sia in realtà il risultato di un lungo slittamento fonico di una parola africana, il rapporto di Bob Dylan con il blues, le espressioni intraducibili, a prima vista, che in realtà nascondono prodigi di «double talking», di doppio o triplo significato.
Da tenere sotto mano.
Dalla “Gazzetta di Parma” Poggi, spirito libero del blues Di Giacomo Marzi
Poggi è forse il grande armonicista italiano , dotato di un suono e di una carica espressiva straordinari; che solo una grande passione possono dare. Tra Robert Johnson e Mississippi John Hurt , Poggi ha raccontato con poesia ed espressività un minuscolo pezzo di quella mitologia blues che tanto ama. Amore che l’artista nato 51 anni fa a Voghera non esprime solo attraverso la musica, ma anche attraverso la lettura ed il giornalismo (è da anni collaboratore dell’autorevole rivista “Buscadero”) ed ultimamente ha anche pubblicato un libro per la casa editrice Meridiano Zero: “Angeli perduti del Mississippi: storie e leggende del blues” . Chiacchierare di questo libro con il suo autore è piacevole come farsi raccontare da vecchi saggi grandi epopee passate. “Angeli perduti del Mississippi” è una specie di dizionario fatto dalle espressioni, le definizioni , i modi di dire, ma soprattutto le persone più ricorrenti e importanti della storia del blues: le piccole voci passano (rigorosamente in ordine alfabetico) da Blind Lemon Jefferson a “Malted milk”, tanto per intenderci. Ma non si provi a pensare che ci siano dietro volontà enciclopediche! Qui ci sono solamente “piccoli frammenti di una mitologia sterminata “ , come dice lo stesso Fabrizio: “un libro che si può leggere random , perché ho voluto raccontare solo piccole storie , per me le più importanti”.
Tratta dal blog: Sassi per Pollicino scritta da Rosa Benedicta Nicolini Libri su Libri – ANGELI PERDUTI DEL MISSISSIPPI (per i più grandi)
‘Chi non ama il blues ha un buco nell’anima’
(inciso sul muro di un vecchio negozio di dischi del Mississippi)
Volete sapere com’è nato il blues? Come si sono create certe ‘ballate nere’ indimenticabili e sempre pronte a rapirci? Non è certo successo in modo banale, ovviamente. Ma, piuttosto, con più d’un pizzico di magia e mistero. Proprio come in ognuno di questi piccoli racconti di Poggi.
Tutto comincia a un crocicchio d’una via. Almeno, così narra la leggenda… Tutto comincia così, certo, per Robert Johnson, che fa un patto col diavolo. Eh, già! Johson cede la sua anima in cambio d’un talento: la magica dote di saper suonare la chitarra come nessuno ha saputo fare prima. E, poi, la storia prosegue fino a oggi. E’ la storia, appunto, del linguaggio un po’ sacro del blues. Da B.B. King a Elmore James. Un ponte fra le radici africane e le possibilità creative liberate dal clima americano.
Leggetelo, ragazzi. E, poi, scrivetene anche voi sul blog di SPP!
Dal sito de: L’Unità In mezzo scorre il fiume Viaggio lungo il Mississippi di Rock Reynolds
Ne è passata d’acqua sotto i ponti da quando, nel 1941, Alan Lomax (il cui La terra del Blues è una lettura quasi obbligatoria) avvicinò uno spaventatissimo Muddy Waters presso la piantagione Stovall, nel cuore del Delta del Mississippi, per chiedergli di suonargli qualcosa. Muddy, da buon monellaccio, temeva che quel bianco fosse un poliziotto venuto a pizzicarlo per produzione illecita e contrabbando di alcol, ma quell’incontro fece di lui l’epitome del Blues, secondo solo a Robert Johnson nell’identificazione collettiva del bluesman. I tentativi di descrivere il Blues con gli strumenti dell’arte popolare non mancano. Se gli sforzi di una pellicola come Crossroads finiscono per risultare stucchevoli, più sinceri e illuminanti paiono film come Blues Brothers, Storia di un soldato e, soprattutto, la serie di documentari d’autore The Blues, curata da Martin Scorsese. Anche la letteratura ha strizzato l’occhio alla musica del diavolo. Vita sul Mississippi di Mark Twain non parla certo di Blues, ma ne inquadra le radici. Più vicine, se non altro per ragioni geografiche, sono le pagine delle due grandi narratrici del Sud, Flannery O’Connor ed Eudora Welty, quest’ultima proprio del Mississippi. E come sottostimare l’importanza dell’opera di William Faulkner, i cui I saccheggiatori e Mentre morivo sono blues su carta? Ma c’è anche chi ha voluto onorare la musica dei braccianti afroamericani fin dall’Europa. Cercando Sam del francese Patrick Raynal è un noir che va alle radici di questa musica, con citazioni su citazioni di brani passati alla storia e riferimenti a luoghi che stanno al Blues come Busseto e Torre del Lago stanno alla musica lirica. L’uscita di un interessante Cd può fornire lo spunto giusto per approfondire il discorso e fare la conoscenza di uno dei suoi esponenti più misconosciuti e genuini: Mississippi Fred McDowell. A differenza di molti colleghi più celebri, McDowell non abbandonò mai il Delta del Mississippi, una vasta zona alluvionale vagamente elicoidale tra Arkansas, Louisiana e Mississippi, dove alcune delle grandi piantagioni di monocultura impiegarono migliaia di schiavi africani prima della Guerra Civile e di braccianti a basso costo dopo la pesante sconfitta dei Confederati. Per inquadrare l’ambiente sul piano storico-geografico, vi suggerisco il saggio Mississippi di Mario Maffi, un viaggio spirituale e fisico lungo l’old man river. Dove si capisce meglio da dove nasce la musica del diavolo: dal cuore dei discendenti degli schiavi, certo, così come dalla povertà di zone agrarie che ancor oggi non sembrano sfiorate dalla modernità. Basterebbe fare una capatina a Clarksdale e dintorni per rendersene conto. Oppure prendere visione dello splendido dvd M for Mississippi (con sottotitoli fortunatamente in italiano visto che lo slang del Mississippi è di difficile comprensione persino per i cittadini americani), un tributo agli ultimi esponenti della musica degli avi, con la loro umilissima quotidianità che è anni luce dai lustrini con cui il business ha cercato di abbellire la grezza ingenuità di musicisti strappati dal portico di qualche baracca di lamiera e catapultati su palcoscenici internazionali. Leggetevi Hoochie coochie man di Robert Gordon, l’appassionata e spesso impietosa biografia di Muddy Waters, oppure il saggio Howlin’ Wolf (I’m the Wolf) dell’italianissimo Luigi Monge, per capire meglio di cosa sto parlando e per cogliere il passaggio del Blues dalle campagne del Mississippi al fragore industriale di Chicago, con la conseguente elettrificazione di una musica essenzialmente acustica. Oppure, ancora, leggete Angeli perduti del Mississippi di Fabrizio Poggi, un appassionato di cultura americana che mette al servizio del lettore la conoscenza profonda della materia di chi l’ha vissuta in prima persona per decenni. Il suo libro non ha nulla di accademico e racconta questa musica spiegando il significato delle principali espressioni slang che la caratterizzano. Soprattutto, visitate il sito www.fredmcdowell.eu e fatevi mandare a casa una copia di Come and found you gone di «Mississippi» Fred McDowell, una raccolta di inediti registrati nel 1967 da uno dei massimi conoscitori della cultura del Sud, quel William Ferris già consulente dell’amministrazione Clinton nonché curatore della monumentale Encyclopedia of Southern Culture , che Rolling Stone ha definito uno dei dieci più influenti esperti di musica americana. Sul sito potrete ascoltare qualche anticipazione e scaricare tre brani di McDowell eseguiti da suoi eredi spirituali e registrati sul campo recentemente, oltre alla traduzione della illuminante intervista allo stesso Ferris e a un saggio sul musicista scritto da uno dei massimi esperti internazionali di Blues, Marino Grandi, fondatore della rivista Il Blues. La cosa più bella di queste registrazioni è l’atmosfera casalinga che si percepisce immediatamente e che, peraltro, non va a detrimento della qualità dell’incisione. Si sentono il classico piedino che batte sull’assito, il palmo che percuote le corde all’altezza del ponte, stoppando le note indesiderate e conferendo ai brani quel ritmo sincopato che da sempre crea uno spartiacque naturale tra la musica afroamericana e tutto il resto. È musica catatonica, ossessiva, ipnotica. Quasi si sente il profumo di melassa e uova strapazzate di cui parla Ferris nell’intervista. Il Blues è anche e soprattutto questo: genuinità, quotidianità, un puro distillato di emozioni. Fred McDowell è quello che B.B. King sarebbe stato se non avesse incontrato Sam Phillips, quello che sarebbero stati gli stessi Muddy Waters e Howlin’ Wolf, due giganti del blues elettrico, se non avessero lasciato il duro lavoro dei campi del Mississippi per la promessa di un futuro incerto a Chicago. In un certo senso, Fred McDowell, nato tra il 1904 e il 1907, rimase quello che era sempre stato: un gran lavoratore. Non è un caso che, dopo aver fatto il benzinaio, con i soldi di un lauto tour europeo si comprò la stazione di servizio e non smise mai di lavorarci. Prima della relativa fama, McDowell era stato abituato come tutti i colleghi a suonare a feste private e barbecue, così come in chiesa, perpetuando il mai troppo abusato stereotipo del «servire Dio e Satana» insieme. I Rolling Stones avevano una venerazione per lui: You gotta move è un brano di McDowell, inserito nel capolavoro Sticky Fingers in una versione molto ossequiente. Keith Richards era solito dire: «Non capisco cosa trovi di tanto interessante la gente nella nostra musica, dopo aver sentito i grandi cantanti blues che l’hanno ispirata». Forse, una spiegazione la potete trovare in Exile on Main St. di Bill Janovitz, l’ottima analisi della genesi del terzo capolavoro degli Stones. Perché, come diceva Muddy Waters, «Il Blues esisteva prima che io nascessi… Finché ci sarà gente che soffre, ci sarà blues». rockreynolds@libero.it
Recensione apparsa su: L’Isola che non c’era” di Stefano Tognoni
Fabrizio Poggi, armonicista e vocalist, con i suoi Chicken Mambo, è divenuto uno dei principali esponenti del Blues italiano. La sua passione lo ha portato diverse volte negli USA ad approfondire quella che per lui è non solo fonte di interesse e studio ma anche una ragione di vita: il Blues.
Il titolo non tragga in inganno, Angeli perduti del Mississippi non è un romanzo ma un vero e proprio dizionario che parte dal lemma Alabama e finisce con Zydeco, con l’imprimatur dato in prefazione da un altro mostro sacro come Ernesto De Pascale.
Angeli perduti del Mississippi è scritto con competenza e scrupolosità, nulla viene dimenticato, ed ogni argomento viene trattato in modo da far comprendere al meglio anche il lettore non propriamente istruito sul genere trattato. Poggi spiega in modo esaustivo termini dello slang legato al blues, nello specifico il double talk, la lingua “nascosta” con la quale i neri parlavano per non farsi comprendere dai bianchi, ma anche modi di dire, generi, leggende, senza dimenticare anche delle essenziali biografie legate agli artisti ritenuti i capiscuola del blues, sempre con dovizia di particolari di interesse storico e sociologico.
Libro interessante ma per forza di cose consigliato agli amanti del genere analizzato.
dal Blog di Mauro Alberghini http://bluesinbologna.splinder.com/post/23167691/angeli-perduti-del-mississippi
Attratto dalla scia lasciata dal barbecue di un vecchio juke joint potresti trovarti improvvisamente ad un crossroad della città di Tutwiler, Mississippi, dove le linee ferroviarie Southern e Yellow Dog incrociavano i loro binari. No, NON sono impazzito improvvisamente, leggendo questo libro ti potresti realmente trovare disperso tra le leggende raccontate dai vecchi davanti ad un focolare imbracciando una vecchia chitarra scordata e realtà vissute da musicisti sconosciuti. Chssà se Robert Johnson starà ridendo di tutto ciò o se, con una pacca sulla spalla al vecchio Muddy non gli stia sussurrando all’orecchio: “Hey Man, il nostro Mojo sta facendo ancora un buon lavoro
DAL SITO WWW.SMEMORANDA.IT recensione di Michele Rumor
Da leggere: Angeli perduti del Mississipi La letteratura vista dalla Smemo. Recensioni di libri e fumetti: carta, cartoni, cartoncini…
di Michele Rumor
Robert Johnson abitava nei sobborghi di Memphis nei primi Anni Venti. Non sapeva suonare la chitarra, solo l’armonica.
Poi, un giorno sparì.
Tornò dopo qualche mese: senza più la sua fedele armonica, ma dotato di una tecnica chitarristica sopraffina, addirittura soprannaturale. Aveva incontrato il diavolo, che gli aveva donato quell’incredibile abilità, ma in cambio aveva preteso la sua anima. Così, almeno, si disse. Forse per questo, la vita di Robert fu breve e piena di tristezza. Morì a trentun’anni, poco dopo un concerto: stava suonando in un locale del Mississipi, quando qualcuno gli passò una bottiglia di liquore avvelenato con la stricnina. Pare sia stato il proprietario del locale: aveva scoperto che Robert stava corteggiando sua moglie.
Quella di Robert Johnson – il più grande e misterioso chitarrista della storia del blues – è solo una delle tante storie (leggende?), raccontate fra le pagine di Angeli Perduti del Mississipi, libro sul blues delle origini scritto da Fabrizio Poggi, lui stesso uno fra i più noti bluesman italiani. Ma non c’è solo Johnson: si parla di Muddy Waters, di B.B. King, di Buddy Guy, di Elmore James. E ci sono paragrafi su John Mayall e Bob Dylan.
Ecco, intendiamoci: questo non è un libro che racconta la Storia, ma tante, piccole storie diverse. Costruito come un dizionario, va dalla A di Alabama, alla Z di Zydeco, la musica tipica della Louisiana e di New Orleans. In mezzo, appunto, storie: per la maggior parte tristi e disperate come il blues. Ma anche un sacco di altre cose interessanti, come un vero e proprio glossario dello slang del blues: deriva dal cosiddetto double talk, il “linguaggio doppio” usato dai neri negli anni della segregazione, per non farsi capire dai bianchi. Così, fra le altre cose, scopriamo che, quando Cab Calloway cantava che le donne di Chicago sapevano cucinare l’osso del prosciutto (“Hambone”) meglio di quelle di New York, forse non stava proprio parlando di cucina…
Anche se Fabrizio Poggi non è uno scrittore – e a volte si vede – la passione da musicista con cui racconta storie e leggende che girano intorno al blues, rende il libro estremamente interessante. Soprattutto, magari, per chi sa poco di questa musica: semplice, eppure capace di scorticare l’anima.
DAL SITO http://www.fasen.eni.it/cultura_tempolibero/schede_libri di Marco Denti
Storicamente, il blues è nato in un momento crepuscolare in cui alcune magie, religioni e culture hanno trovato una nuova forma. Un passaggio che ha visto anche tradizioni di consuetudini e di folklore diventare canzoni, proprietà pubblica e ridefinibile, materiale di lavoro, di suono e d’amore per quanto contrastato e faticoso. La sintesi, senza dubbio un “prodotto” sociale e culturale straordinario, non ha portato soltanto alla genesi di un suono che è poi stato la fonte primaria di una larga parte della musica occidentale, ma anche alla creazione di uno slang che, di secolo in secolo, si è trasformato in un vero e proprio linguaggio.
Fabrizio Poggi con un lavoro certosino di ricerca e di assemblaggio ha ricostruito l’idioma degli “angeli perduti del Mississippi”, vocabolo per vocabolo, frase per frase, titolo per titolo e personaggio per personaggio, allineandoli un po’ per comodità e un po’ per le logiche stringenti di un dizionario in ordine alfabetico. In un altro senso, il libro si può leggere come un manuale linguistico, colto e approfondito, il cui tenore non ha assolutamente nulla da invidiare a uno studio universitario, ma che a differenza di tanti tomi pieni di note a pié di pagina, scorre senza esitazioni sulle onde di una passione che Fabrizio Poggi conosce “dal vivo”, perché questo libro è davvero frutto di un “rapporto speciale” con il blues.
Dal sito www.stradanove.net recensione di MATTEO GACCIOLI
Non un romanzo, non un saggio, non una biografia: Angeli Perduti Del Mississippi è una sorta di dizionario che dalla A alla Z raccoglie espressioni e parole del Blues.
Pazientate, ma una telegrafica e approssimativa premessa va fatta perché il Blues, appena oltre il livello “bella canzone!”, trascina nella necessità di comprendere cosa c’è dietro. Ai tempi della tragica deportazione di schiavi verso le americhe, lingua e cultura di interi popoli venivano trapiantati nel nuovo mondo ad innescare un processo sociale e sociologico di proporzioni epocali (la nascita del c.d. “nero americano”… illuminante e intramontabile, sul punto, LeRoi Jones – “Il Popolo del Blues”).
Un secolare mischione di linguaggi e religioni, un melting pot che aggiungeva all’ingrediente principale (la cultura africana) idiomi dall’inglese come dal francese (i coloni della Louisiana); superstizioni pellerossa come stregonerie caraibiche.
Musicalmente parlando ne risultava la nascita del Blues, genere assolutamente nuovo che parlava il gergo degli ultimi e di questa lirica faceva un carattere di originalità, indissolubilmente legato alle proprie tematiche (la solitudine; il sesso; la sofferenza; l’evasione; la speranza). Provate un po’ a cercare sul dizionario di inglese parole come “Hoochie Coochie”, “Cajun” o espressioni come “Dust My Broom”… non vi sarà di nessun aiuto o almeno, se qualcosa troverete, per certo non sarà l’accezione che quella parola/espressione assume per il Blues. Angeli Perduti Del Mississippi ne spiega l’origine ed il significato con fruibilità ed immediatezza; nel farlo, non perde l’occasione per fare da bussola tra gli affluenti del Blues (Delta; Chicago; Texas; British; Piedmont; ecc.) o per narrare la storia di un bluesman o della leggenda che lo circonda. Il libro ha l’ulteriore pregio di rimandare direttamente alla musica, chiudendo buona parte delle voci con il riferimento ad un album/canzone che traduce – cuffie in capoccia – quello che la pagina ha spiegato.
Scritto con passione, trasmette la passione del suo autore, quel Fabrizio Poggi che già è armonicista di fama mondiale e conosce il genere, più che bene, intimamente. Non a caso Angeli Perduti Del Mississippi è effettivamente sbilanciato in favore dei soffiatori – il che nemmeno guasta considerato che questi, nelle pubblicazioni, nelle produzioni, trovano sempre meno spazio di quanto effettivamente meritano.
Consigliato a tutti, purché amanti della musica, non necessariamente del Blues: un valido approccio per i neofiti, un autorevole punto di riferimento per i cultori. Un libro comunque da avere sullo scaffale per togliersi lo sfizio di scoprire cosa accidenti è il Mojo Working di Muddy Waters o cosa diavolo si nasconde dietro al When The Levee Breaks dei Led Zep.
Dal Blog www.coolclub.it recensione di Osvaldo Piliego
Dietro ogni lettera si nasconde una storia, a volte una leggenda. E’ proprio il confine tra fantasia e realtà che rende il blues materia musicale così interessante. Più di ogni genere musicale il blues ha in sé una magia ancestrale alimentata da personaggi incredibili. E questo libro, non a caso scritto da un musicista, ha in sé tutta la passione e l’anima che questo genere riesce a trasmettere. Il pretesto è un dizionario in cui ogni lettera è lo spunto per un viaggio, il risultato è un lavoro organico che conquista anche i profani. Non è una storia del blues, ma un esame su più fronti, che riesce ad accostare alle biografie di artisti e band, riflessioni antropologiche, digressioni su alcune tecniche e tante curiosità.
Recensione apparsa su Rockerilla e scritta da Daniele Follero
Emerso nel sud degli U.S.A. a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, il blues ha radici molto più profonde che partono dalle origini stesse della cultura afroamericana, nata successivamente alla deportazione degli schiavi africani in America e iniziata più di due secoli prima. Sia il blues che il jazz, nati parallelamente (e per un lungo periodo, sinonimi tra loro) appartengono al mondo della cultura popolare e, pertanto, non è possibile tracciarne un percorso storico senza fare riferimento ai miti e alle leggende popolari che ne pervadono la storia. Racconti di vite sregolate, di personaggi mitologici, ma anche di musicisti in carne ed ossa, portavoce della sofferenza dei neri-americani, ma non solo. Nel mondo delle scale pentatoniche e delle note “blue” trovano spazio anche Bob Dylan e il british rock. Lontano da pretese storiografiche e tantomeno antropologiche, il noto armonicista blues Fabrizio Poggi, dalla posizione di “insider”, più che dello studioso scientificamente distaccato dalla materia di indagine, sceglie la forma del dizionario per ordinare il suo personale punto di vista sulla cosiddetta “musica del diavolo”. Un libro scorrevole e utile, frutto di esperienze dirette, ma anche di numerose letture.
RECENSIONE DAL BLOG FILM.TV.IT
Ballate, piombo e angeli perduti
Non sono un lettore centometrista: mi piace leggere con calma e una volta finito il libro rileggerlo da cima a fondo. Di seguito i sette titoli che ho assaporato negli ultimi tre mesi. Buona lettura.
5- Fabrizio Poggi, Angeli perduti del Mississippi. Storie e leggende del blues, Meridiano zero
Pubblicato da Meridiano zero nella collana Mappe musicali, Angeli perduti del Mississippi dell’armonicista Fabrizio Poggi è molto più di un semplice viatico alla cosiddetta musica del diavolo, ma è un vero e proprio viaggio ragionato nel ramificato universo del blues tra radici storico-geografiche (l’area del Delta), varianti regionali (Mississippi, Piedmont, Texas), suggestioni magiche (le pratiche hodoo), evoluzioni urbane (Chicago, Detroit, Memphis) e derivazioni europee (British Blues). Senza tralasciare le maggiori personalità (Robert Johnson, Muddy Waters, Sonny Boy Williamson I e II, Willie Dixon) di un genere musicale che in tre accordi e dodici battute ha saputo racchiudere tutte le sfumature del sentire umano.
Recensione apparsa su “D” settimanale allegato alla Repubblica del 29 maggio 2010 scritta da MARCO FECCHIO DIAVOLO D’UN BLUES
Johnson, Blind Lemon Jefferson, Lightnin’ Hopkins, Bob Dylan e altri. Storie di demoni, fantasmi, magie voodoo, aneddoti curiosi e doppi sensi. Non un dizionario, ma un racconto in cui si scopre che “Eagle” è sinonimo di paga settimanale (l’aquila americana effigie sui dollari nelle tasche dei lavoratori a fine settimana) e che offre esaurienti info su un personaggio chiave nella storia del blues: il diavolo. Un mosaico per neofiti ed esperti della musica che ha gettato il seme di tutta la musica moderna. In copertina Mississippi John Hurt disegnato da Robert Crumb.
Recensione apparsa su www.il popolo del blues.com scritta da Salvatore Esposito
Fabrizio Poggi non è solo un ottimo musicista ma anche un attento ed appassionato ricercatore, da anni infatti oltre ad incidere dischi con le sue due band i Chicken Mambo e i Turututela, ha dedicato molto tempo allo studio del blues ed in particolare all’armonica, strumento a lui molto caro. Angeli Perduti del Mississippi, non è il primo libro dedicato al blues che esce dalla penna di Poggi (di qualche tempo fa è lo splendido Il Soffio Dell’Anima, dedicato agli armonicisti blues) ma a differenza dei precedenti, in questo nuovo lavoro il musicista vogherese va studiare da vicino le intricate e mitiche radici della musica del diavolo. Dopo l’interessante presentazione di Ernesto De Pascale, uno dei principali animatori della scena blues in Italia, si viene letteralmente rapiti dallo stile accattivante di Poggi, che ci conduce attraverso storie affascinanti nelle quali incontriamo personaggi che hanno fatto la storia del blues da Robert Johnson a B.B. King da Emor James a Buddy Guy, il tutto intercalando suggestioni leggendarie, ricerche antropologiche ed interessanti analisi musicali. Leggendo il libro, si ha la sensazione che Fabrizio Poggi voglia condividere con il lettore la sua passione per il blues, accompagnandolo attraverso un viaggio che conduce ben oltre l’immaginario tipico del blues da pub, ma che va dritto a coglierne la vera anima, quella celata ai più, e con grande abilità la priva di quel manto polveroso del tempo riportandola integra alla luce. Di grande interesse ci sono sembrati il capitolo dedicato a Bob Dylan, che di tradizione blues ha permeato da sempre il suo songwriting, ma anche le varie biografie di Leadbelly, Robert Johnson Howlin’ Wolf e Blind Lemon Jefferson. Insomma se cercate una mappa per orientarvi nell’intricato ginepraio della storia del blues, Angeli Perduti del Mississippi, è il libro giusto in quanto ne compendia la storia e i personaggi principali ma allo stesso tempo si esalta nella ricerca musicale ed antropologica.
Recensione apparsa su www.cinemadadenuncia.splinder.com
Pubblicato da Meridiano zero nella collana Mappe musicali, Angeli perduti del Mississippi dell’armonicista Fabrizio Poggi è molto più di un semplice viatico alla cosiddetta musica del diavolo, ma è un vero e proprio viaggio ragionato nel ramificato universo del blues tra radici storico-geografiche (l’area del Delta), varianti regionali (Mississippi, Piedmont, Texas), suggestioni magiche (le pratiche hodoo), evoluzioni urbane (Chicago, Detroit, Memphis) e derivazioni europee (British Blues). Senza tralasciare le maggiori personalità (Robert Johnson, Muddy Waters, Sonny Boy Williamson I e II, Willie Dixon) di un genere musicale che in tre accordi e dodici battute ha saputo racchiudere tutte le sfumature del sentire umano.
Nella sua argomentazione per voci, Poggi fa piazza pulita di un bel po’ di equivoci e luoghi comuni che condizionano la percezione del blues come musica intrisa di una tristezza immedicabile e come genere irrimediabilmente monocorde: trattando le numerose declinazioni che la matrice ha ricevuto a seconda delle singole realtà in cui ha attecchito, Angeli perduti del Mississippi rivela la straordinaria varietà di inflessioni e coloriture del genere. Si passa dalla viscerale ruvidezza del Delta (regione situata a nord dello stato del Mississippi e nella parte orientale dell’Arkansas, da non confondere con la foce del fiume) alle asprezze elettriche di Chicago e dalle ibridazioni jazz e swing di Kansas City (nonché del West Coast Blues di T-Bone Walker) alle sonorità morbide e rilassate dello Swamp Blues della Louisiana. Ce n’è per tutti i gusti, insomma.
Ma a rendere la cartografia musicale di Poggi un autentico gioiello è soprattutto l’attenzione rivolta ad aspetti meno trattati e assolutamente cruciali nella significazione e nella diffusione del filone: il carattere allegorico del double talk (o jive o signifying) nei testi dei bluesmen, l’importanza dei juke joints (gli spartani locali del sud degli States), delle prime trasmissioni radiofoniche dedicate al genere (la leggendaria King Biscuit Time), dei concerti itineranti (l’American Folk Blues Festival), dei raduni annuali (il Newport Folk Festival) e soprattutto la fioritura di etichette discografiche grandi e piccole (Chess, Bluebird, Trumpet) che hanno sdoganato un genere inizialmente destinato e circoscritto al pubblico afroamericano (a tal punto che i dischi di jazz e blues negli anni Venti e Trenta venivano definiti race records).
Stante l’equilibrata misura della trattazione (voci snelle, esposizione limpida e un dettagliato indice analitico), non mancano però amplificazioni e accentuazioni personali: il lungo capitolo dedicato a Bob Dylan testimonia non solo il ruolo chiave svolto dal cantautore di Duluth nella rielaborazione della tradizione blues e spiritual ma anche la genuina ammirazione dell’autore; e la partecipazione con cui sono descritte le travagliate vicende dei più grandi armonicisti (Sonny Boy Williamson I e II, Little Walker, Sonny Terry, Junior Wells) tradisce l’amore per lo strumento d’elezione di Poggi. L’unica pecca che si può rimproverare a un libro prezioso quale Angeli perduti del Mississippi è un’eccessiva ritrosia ad approfondire le componenti squisitamente tecniche che differenziano i vari stili di blues ma, considerando che si tratta di una pubblicazione non specialistica, la decisione di non calcare troppo la mano è più che comprensibile. Un libro da leggere tassativamente con You Tube a portata di mano per godersi i brani citati. Everybody understand the blues.
Recensione apparsa su www.musicalnews.com scritta da ANDREA BRICCOLI
Nuovo libro per Fabrizio Poggi, che ci regala un’opera sul blues, che parla di stili, di curiosità, di aneddoti.
A distanza di circa cinque anni dal suo ultimo lavoro “il soffio dell’anima: armoniche ed armonicisti blues”, Poggi scrive un libro caratterizzato da slang, terminologie, luoghi ed appellativi tipici del mondo musicale afro americano: non ci si ferma sulla vita dei musicisti, ma esplora tutto ciò che fa da contorno alla scrittura ed alla nascita di una canzone blues; si passa dai luoghi, alle case discografiche, dagli oggetti di culto agli appellativi che hanno fatto e fanno da contorno al mondo blues.
Che differenza c’è tra “hoodoo” e “Voodoo”? Cosa sono “jack ball” e “holler”? Un vademecum in cui Fabrizio Poggi ci spiega il linguaggio universale di questo universo musicale unico nel suo genere; ci chiarisce gli stili e approfondisce molto chiaramente le radici africane di tanti termini usati frequentemente nelle canzoni di questi “angeli” musicali.
Un libro bello, veloce da leggere, non necessariamente per musicisti: appassiona sia i neofiti che i vecchi ascoltatori, grazie ad una critica musicale chiara e diretta.
Recensione di Roberto Caselli apparsa su Jam
Artisti, dischi, etichette, slang, locali, città legati a un secolo di blues. L’attività concertistica di Fabrizio Poggi è sempre più affiancata da quella divulgativa. Angeli perduti del Mississippi è il suo nuovo libro che segue il bel lavoro sull’armonica di qualche anno fa: si tratta di una sorta di compendio enciclopedico su tutto ciò che fa blues, un excursus informale che ha il pregio di funzionare come una chiacchierata tra amici nella quale si possono chiarire stili ed evoluzioni, aneddoti e verità. L’idea è interessante e si concentra in rigoroso ordine alfabetico non tanto sulla vita dei musicisti (vengono citati solo quelli in qualche modo mitici), quanto sulla terminologia dello slang. Se avete qualche dubbio sul significato di termini come candy man, see see rider, canned heat, jelly roll, fat mouth o back door man che così sovente si trovano nei testi o addirittura nei titoli dei brani, beh, allora questo libro fa al caso vostro. Qui c’è la concreta possibilità di soddisfare curiosità nuove e antiche che un semplice vocabolario non riesce a tradurre nell’accezione gergale in uso ai tempi. Naturalmente oltre alle spiegazioni di questi bizzarri modi di dire ne seguono altre relative ai generi musicali che si sono via via codificati nel mondo delle dodici battute; si parla delle case discografiche, dei locali, delle città e delle canzoni che furono e sono di contorno a un secolo di blues. Poggi è competente in materia e sebbene, per la natura del libro, non si possa dilungare più di tanto sulle varie voci è sempre preciso ed esaustivo. Dopo la lettura se ne esce soddisfatti e non si pensi che si tratti solo di materiale per neofiti. C’è molto da imparare anche per vecchi navigati estimatori di blues.
Recensione di Matteo Fratti apparsa su www.rootshighway.it/bookshighway/books.htm
E’ colmo di elementi noti e meno noti, curiosità e mistero, questo libro con cui l’armonicista pavese Fabrizio Poggi si avvicina di nuovo alla letteratura, dopo le canzoni imbevute di queste stesse tradizioni e leggende intorno alla musica nera nel suo precedente lavoro discografico, il bellissimo Oh Mercy. E se alle storie del blues Fabrizio si era già abbandonato con la pubblicazione nel 2005 di “Il soffio dell’anima: armoniche e armonicisti blues”, stavolta la passione cede al fascino di farsi spazio tra di esse per decodificarne il linguaggio e le parole stesse con cui quelle storie ci sono state tramandate nelle canzoni. E proprio come il gioco di rimandi dell’oralità da cui proviene allora, il vocabolario del blues ci apre, nella sua carica semantica, a nuove storie e leggende perdute nel Mississippi, dalla differenza tra i termini “hoodoo” e “voodoo” alla relazione col blues di artisti quali Leadbelly o Bob Dylan, esempi a cui si aggiungono le innumerevoli espressioni gergali che hanno dato il titolo a canzoni sì come a generi musicali e conferito importanza ai luoghi geografici, da Mellow Down Easy a Stone Fox Chase o, per dirla con le parole della prefazione di Ernesto De Pascale “..inizia con Alabama e termina con Zydeco”.
Come il fiume che le alimenta, Poggi ne traccia ancora una volta le innumerevoli diramazioni, mettendosi in disparte quel tanto che basta al cantastorie per dare spazio a quel che racconta, più con l’estro artistico del narratore che col piglio altezzoso del saggista. Ne viene fuori una godibile opera compilativa, intessuta di narrazioni raccolte via via lungo la strada di chi vive l’esperienza musicale, tra l’altro direttamente, oltre che avvalendosi delle informazioni raccolte in un pugno di libri, consumati con l’ardore dello studioso. Sicchè neppure infinita, quanto piuttosto sincera e affatto scontata è la bibliografia alla fine del testo, con un indice analitico che fa onore all’opera in una serie di connessioni invitanti alla lettura, viaggio antropologico che non ubbidisce alle ferree regole accademiche o a ulteriori catalogazioni, ma solo al sentimento di un lungo elenco di canzoni, artisti, terminologie di un abbecedario emotivo.
Il risultato di Angeli perduti del Mississippi è quindi un glossario che ben risponde ai tipi delle “mappe musicali” per la Meridiano Zero, consultabile all’occorrenza e libera lettura senza un ordine preciso, ma che potrebbe ben racchiudere in sé tutto l’amore di Poggi per l’idioma afroamericano attraverso il contrasto emergente dalla frase in quarta di copertina (raccolta dal muro di un vecchio negozio di dischi del Mississippi): “chi non ama il blues ha un buco nell’anima”. A noi colmarlo.
Recensione di Roberto Giuli apparsa sul Buscadero
Chissà quante volte abbiamo ascoltato Robert Johnson o Muddy Waters, o dischi registrati in un “juke joint”, o ripetuto a denti stretti frasi tipo “get me a mojo hand”. Abbiamo ascoltato J.B. Lenoir e assaporato del “funk”, oppure semplicemente fruito del blues in tutte le sue varianti, down home, delta, piedmont; quante volte avremo chiacchierato con Mr. Bojangles, o assaporato le canzoni di Bob Dylan, considerando distrattamente che le dodici battute fungono da base portante del suo patrimonio artistico; e quante volte ci sarà capitato di disquisire sulle radici africane dell’intera musica americana degli ultimi duecento anni.
Termini, appellativi, luoghi, generi musicali, locuzioni che creano con il tempo un identificativo indelebile e che si riflettono ancor più indelebilmente sull’immaginario in senso più ampio.
L’immaginario ne smorza un po’ l’effetto a volte, ricambiandoci però con una praticità d’uso; e se qualche volta citiamo termini, locuzioni, modi di dire con un po’ di approssimazione, ciò fa parte delle regole del gioco. In fondo la musica viene suddivisa in generi per nostro comodo e questo di per se è già un significato, al di la del significato vero e proprio.
Come dire che c’è chi si prende l’illustre briga di approfondire e chi poi fruisce (magari il fruitore renderà il favore in altri campi). Chi approfondisce si appresta a un lavoro insostituibile, affascinante e a volte ingrato; il cosiddetto “fissato” ha il gusto e l’insana tentazione di trasmettere le sue conoscenze accumulate in decenni di frequentazioni, ricerche, viaggi, studi; ciò che ha acquisito con tanta passione ma anche con fatica, lo mette istantaneamente al servizio del fruitore, che nello spazio di una lettura arricchisce se stesso.
Nello specifico, l’uomo con l’insana tentazione è Fabrizio Poggi, ministro dell’armonica e frequentatore del panorama afro americano da decenni, autore di un altro splendido saggio, Il Violino dei Poveri, dedicato al piccolo strumento e ai suoi eroi (recuperare please qualora non lo aveste già fatto).
Me l’immagino stanco di sentire la gente che canta Hoochie Coochie Man “a pappone” (ovvero così come viene; tranquilli, è nel pieno diritto del fruitore); e allora beccatevi un incredibile dizionario su tutto ciò che riguarda da vicino il blues, i suoi dintorni (eccellente il capitolo sul menzionato Dylan), le sue leggende, le radici, i suoi lati oscuri, i personaggi. Angeli Perduti Del Mississippi è un indispensabile vademecum per comprendere il significato di tutto quello (o di molto perlomeno) che ha animato e che anima l’universo musicale e culturale afro americano; che poi, in fondo, generi o etichettature a parte, tutto è riconducibile ad un unico cosmo; il blues e la musica sono un linguaggio universale, di cui Fabrizio riporta i codici più significativi.
L’autore restituisce con stile fluido e accattivante diverse biografie, Leadbelly, Robert Johnson (chiaramente uno dei basilari), Lightnin’ Hopkins, Howlin’ Wolf, Blind Lemon Jefferson, John Lee Hooker, fotografa gli stili regionali e soprattutto approfondisce le radici africane di tanti termini comunemente usati; chiarisce la differenza tra “hoodoo” e “voodoo”, si immerge nel significato di parole come “shimmy”, “hokum” “holler”, “hambone”, “jack ball”, “jazz”, indica i vari modi per chiamare l’armonica. Personaggi, appellativi, oggetti di culto, diventano protagonisti della stessa rappresentazione storica.
Insomma c’è di tutto in questo bel volume, più che approfondito (e non potevamo avere dubbi), ma anche bello, scorrevole e divertente da leggere, una volta tanto anche da chi non è al dentro dell’argomento (e questo è un gran merito). Una ricerca, un viaggio fisico e spirituale verso territori cari e familiari all’autore, che mostra tutta la sua conoscenza e il rispetto per il fruitore di cui sopra; e Fabrizio è persona che umilmente mostra di esserlo lui stesso, fruitore.
Ed è grazie a opere come questa se miti, storie e leggende sopravvivono, se un patrimonio culturale viene preservato; se, in fondo, gli “angeli” non sono perduti per sempre.
Recensione di GIULIA GUIDA dal blog www.liberidiscrivere.splinder.com
Mi sono avvicinata a questo libro con una sorta di reverenza mista a timore poiché devo ammettere in tutta sincerità che sono una profana del blues giusto sapevo che si suona a New Orleans, che Billy Holiday è una delle sue voci più evocative, che è una musica nata nel cuore delle piantagioni nelle comunità afroamericane degli schiavi del cotone. Non sono una musicista ne un’ esperta di musicologia per cui mi sono detta magari è un libro noioso pieno di gerghi tecnici, di eccentricità per addetti ai lavori comprensibile solo da chi ha un bagaglio di conoscenze specifiche nel campo. Ho dovuto ricredermi perché Angeli perduti del Mississippi sotto le mentite spoglie di un dizionario del Blues è un viaggio, un viaggio avventuroso nell’anima e nel cuore di un popolo che disperatamente cerca ancora un’ identità, una scoperta continua di ritmi, cadenze, aneddoti, slangs. Ogni voce di questo dizionario è un piccolo tesoro da conservare con cura, da assaporare con gratitudine e più leggi e più ti incuriosisci, più sorridi toccandoti la fronte e dicendoti ecco cosa significava questa frase apparentemente banale colta un giorno in una canzone che so io di Jim Morrison o Bob Dylan. Perché il Blues è un codice per iniziati, la voce gutturale e stonata delle guardie carcerarie o dei prigionieri che spaccano pietre sotto il sole impietoso della Luoisiana, è la voce dei balordi, dei giocatori d’azzardo, dei vagabondi che girano l’America sui treni della Grande Depressione. Il Blues è sporco, malinconico, triste, cola come una giornata di pioggia umida di palude, ti strappa l’anima. E’ la musica delle feste da ballo campestri della Louisiana dove il barbecue regna sovrano e la birra scorreva a litri. E’ la musica che accompagna le danze sensuali degli afroamericani -lo slow drag- il sabato sera nei juke joints, le bettole per neri del sud degli States. Poggi ha il cuore del bluesman e la leggerezza narrativa del raccontatore di favole irlandese seduto accanto al fuoco di torba e grazie a lui impariamo a conoscere Robert Johnson il più famoso esecutore di Delta blues di tutti i tempi, divenuto leggendario per aver venduto l’anima al diavolo ad un incrocio in cambio di una superlativa tecnica chitarristica, leggenda alimentata anche dall’oscurità dell’artista di cui per decenni non si sono viste immagini e dai testi delle sue canzoni colmi di riferimenti erotici e peccaminosi. O scopriamo che Mojo è il nome del più famoso talisamano portafortuna del mondo del Blues e che proprio New Orleans e la Louisiana sono i luoghi dove esercitavano le migliori fattucchiere di magia nera. Lunghissima la voce dedicata a Bob Dylan. Al termine di quasi ogni voce un disco consigliato e se abbiamo la pazienza di raccogliere ogni suggerimento ci darà uno spunto davvero prezioso per rinfoltire la nostra collezione di Blues. Che dire ancora leggetelo, imparerete cose che di solito non si leggono sui libri.
Recensione dal sito www.spaghettiblues.it di AMEDEO ZITTANO
Ricordo molto bene la prima volta che incontrai Fabrizio Poggi. Avvenne a Polverigi in occasione di un suo concerto. Notai subito che Fabrizio è un uomo fiero e silenzioso che osserva ogni cosa; che quando parla si concede delle piccole pause tra una frase e l’altra: una persona che ama riflettere prima di parlare.
Premetto che, avendo letto anche il suo primo libro Il soffio dell’anima, certamente sarò in qualche modo condizionato. Noto subito che il format comunicativo è rimasto invariato, una sorta di dizionario, o diario magico, che permette di navigare come spiriti (o angeli…) tra i flutti del Blues. Fabrizio riesce per la seconda volta a trasformare una lettura, apparentemente didattica, in una narrativa intrigante, semplice e diretta, dove le date si indicano per raccontare le storie (e non viceversa), tanto che, alla fine, della formula del dizionario rimane solo un pretesto artistico semplicemente per il gusto letterario di narrare a dosi controllate, o pillole, le più belle storie del Blues.
Il titolo sembra quello di un romanzo e sorprende il lettore che si ritrova immerso in una struttura discreta, da dizionario scritto, con uno stile denso di morbida eloquenza. I contenuti sono i più vari, dal semplice significato di una parola o frase di una canzone, alle più complesse retrospettive dei grandi personaggi; dalla semplice descrizione di un borgo di Chicago, alla scoperta dei veri significati lirici del Blues; tutto ordinato dalla A alla Z.
La copertina (sarò inevitabilmente condizionato dal suo primo libro e… con tutto il gran rispetto per Crumb) questa volta mi delude un po’. La scelta di un classico, il non voler rischiare nella ricerca di una grafica nuova, manifestano una strategia troppo contrastante con lo spirito di Poggi; per questo, seppur di fronte ad una delle più belle e suggestive opere di Mr. Robert Crumb, non la preferisco alla splendida ed inedita opera della Zelaschi. Alla fine del libro si ha come la sensazione che tra gli Angeli perduti del Mississippi ce ne sia qualcuno italiano, partito magari un secolo e mezzo fa e che, per un motivo o per l’altro, abita oggi gli stessi cieli.
Dal sito Meridiano Zero.it
Cosa troverete in Angeli perduti del Mississippi? La storia e la leggenda. Il racconto di una sanguinosa schiavitù e del suo canto di libertà.
Cominciò con un giovane nero che a un crocicchio vendette l’anima al Diavolo, in cambio di un’arte divina nel suonare la chitarra. Cominciò con gli schiavi piegati nelle piantagioni e le sonorità dell’Africa. Nacque da un meticciato di uomini, donne, dolore, nostalgia, disperazione e consolazione. Angeli perduti del Mississippi, in ordine alfabetico, vi racconterà le storie di paludi non bonificate, di inni sacri, di tradizioni maledette, di rituali vudù, di fiumi in gola di bruciante Canned Heat.
Non dovete essere già appassionati di musica blues per aver voglia di fare un viaggio nel profondo della Louisiana e dell’Alabama. I cultori del blues ameranno la completezza e la sincera passione di Poggi, oltre che la sua profonda conoscenza del blues, ma sono gli inesperti quelli che più di tutti dovrebbero concedersi di subire il fascino di quel mondo che resiste al tempo, anzi, migliora nel tempo. Come quei vecchi locali malfamati che acquistano fascino graffio dopo graffio, anno dopo anno.
Poggi non vi spiegherà il blues, ma vi farà guardare e sentire e assaporare tutto quello che lo compone. L’alcol, il sudore, il sesso, le parole chiave, la fede in Dio, le luminose certezze che da’ il dolore.
Il blues e’ rabbia, dolcezza, disperazione, tenerezza. Il blues non e’ una legge o una religione, ma e’ qualcosa che appartiene all’intimo dell’essere umano: alla passione. E poiché la passione e’ qualcosa che sta dentro il cuore di ognuno di noi, non ha regole, e soprattutto non si può spiegare. Il blues e’ soprattutto libertà dalla sofferenza. Libertà di scacciare le proprie malinconie, soffiando dentro a un’armonica o passando un ditale sul manico di una chitarra.
Dal blog BEATBOPALULA.IT di Claudio Giuliani
Innamorato perso del blues e del south border bayou sound, Fabrizio Poggi ha messo nero su bianco ancora una volta i suoi apprendimenti, i suoi temperamenti e le sue emotività blues. Apprendimenti acquisiti non su fogli stampati, ma sul campo, respirandone l’aria e guardando negli occhi la gente che le sue cicatrici di blues le vive sulla propria pelle… ma chi è Fabrizio Poggi? Molti di noi lo conosciamo in virtù del suo album più recente: quel Mercy che ha nei propri magnifici solchi secrezioni di un’autentica anima bluesy, un’anima che ha vissuto dolori e sconfitte, ma che ha sempre saputo risollevarsi e trovare, grazie alla forza rigeneratrice e confortante della musica e delle canzoni, quella grintosa determinazione e quella gioia che accende l’espressività e la speranza della rigenerazione…
…Un respiro blues & gospel che ti ritrovi nel petto pronto a risorgere se tocchi le corde giuste…
Anch’io, come tanti, quando dico Chicken Mambo penso Fabrizio Poggi e viceversa; il giovanotto ha all’attivo una quindicina di dischi, lui è il padre fondatore dei Chicken Mambo, band caposcuola della provincia pavese (e non solo) che ha raccolto molto meno di quanto avrebbe meritato. Una pionieristica band italiana che (in tempi non sospetti) ha miscelato con incredibile perizia generi come lo zydeco, il blues e la roots southern music.
Nel suo bagaglio troviamo albums di notevole spessore come, per esempio, Nuther World, un cd inciso a suo tempo in Texas con la partecipazione di, (quando ancora non l’aveva fatto ancora nessuno: era il ’98!!), gente come Jerry Jeff Walker, Jimmy La Fave, Merel Bregante, Ponty Bone, Mike Blakely e Donnie Price.
Inoltre il nostro bloodbrother è anche fautore di quel lodevole progetto che è Turututela con il quale ha avvalorato una delle più belle pagine della riscoperta del patrimonio folk della provincia lombarda; collegato al tema doctor Poggi ha pubblicato nel 2003 il libro-cd L’armonica a bocca: il violino dei poveri. Nel 2005 ha dato alle stampe Il Soffio Dell’Anima, armoniche e armonicisti blues edito per le edizioni Guardamagna, un libro scritto per condividere tutto ciò che ha appreso sull’armonica;.è un libro davvero stimolante ed esauriente, un utile strumento sia per l’appassionato più navigato che per il neofita che vuole avvicinarsi a quel mondo. Inutile aggiungere che Fabrizio è anche uno dei più bravi e preparati armonicisti in circolazione nel nostro paese.
Oggi ci è arrivato questo suo nuovo bel libro che riprende in mano il timone di un itinerario blues e scritto sempre con quella competenza e passionalità che gli riconosciamo; un libro che racconta il blues dalla A alla Z, che possiamo leggere a pagine dispari o a pagine pari o saltare, girando a caso, dalla lettera B come Back Door Man o Blind Boys Of Alabama (che ritroveremo ospiti nel suo imminente cd insieme a molti altri eroi) alla D come Down Home Blues o alle pagine centrali con H come Hot Foot Powder, passare alla K con Keep On Truckin’, a Lowdown Blues o aprire le pagine finali con Swamp Blues, Washboard, Work Songs, concludere con Zydeco e riprendere il percorso inverso.
Sono pagine dove scoprire essenze blues e assiomi oscuri o mai sperimentati: non mancano aneddoti, traslazioni delle espressioni slang, schede e argomenti della mitologia e tradizione blues, riflessioni sui personaggi (da Sonny Terry & Brownie McGhee a Taj Mahal, da Sonny Boy a Robert Johnson, da Bessie Smith a Bob Dylan perché anche mr. Zimmerman è uno che ha attraversato il blues). Il tutto narrato con autenticità morale e complicità perché… il blues è anche condividere i sentimenti provati e le esperienza vissute.
Dal blog LETTERA.COM [libri con qualcosa di speciale dentro] di Marco Denti
Un glossario, studiato parola per parola, diventa una lunga e appassionata cavalcata alle origini di ogni singolo rituale del blues, dalle accordature aperte alle aperture ad altre musiche. Dal Bill Abel a Ike Zinnerman, tutta la grammatica del blues perché chi non ama il blues ha un buco nell’anima. Angeli perduti del Mississippi: Everyday I Have The Blues, il blues parola per parola secondo Fabrizio Poggi Una cosa insegnavano un tempo i bluesmen più navigati a quelli meno esperti, una cosa che vale ancora oggi, e cioè che nel blues, come e più che in altre musiche, i silenzi e le pause sono importanti almeno quanto i suoni. Storicamente, il blues è nato in un momento crepuscolare in cui alcune magie, religioni e culture hanno trovato una nuova forma. Un passaggio che ha visto anche tradizioni di consuetudini e di folklore diventare canzoni, proprietà pubblica e ridefinibile, materiale di lavoro, di suono e d’amore per quanto contrastato e faticoso. La sintesi, senza dubbio un prodotto sociale e culturale straordinario, non ha portato soltanto alla genesi di un suono che è poi stato la fonte primaria di una larga parte della musica occidentale, ma anche alla creazione di uno slang che, di secolo in secolo, si è trasformato in un vero e proprio linguaggio. Fabrizio Poggi con un lavoro certosino di ricerca e di assemblaggio ha ricostruito l’idioma degli Angeli perduti del Mississippi, vocabolo per vocabolo, frase per frase, titolo per titolo e personaggio per personaggio, allineandoli un po’ per comodità e un po’ per le logiche stringenti di un dizionario in ordine alfabetico. La schematicità della disposizione non ha pesato sull’interpretazione di Fabrizio Poggi così come non influisce sulla lettura. Il libro si può prendere dall’inizio alla fine leggendolo come un romanzo dove si intrecciano storie di demoni e chitarristi, di fantasmi e radici, di uno o più Delta e nomi di bluesmen che evocano leggende: Robert Johnson, Blind Lemon Jefferson, Slim Harpo, Lightnin’ Hopkins, Elmore James e Bob Dylan. Sì, perché alla voce Dylan, a Bob è dedicato un ampio ritratto, come non potrebbe essere diversamente perché pur non avendo scritto bluesman sulla sua carta d’identità è uno snodo fondamentale che Fabrizio Poggi non poteva evitare. In un altro senso, il libro si può leggere come un manuale linguistico, colto e approfondito, il cui tenore non ha assolutamente nulla da invidiare a uno studio universitario, ma che a differenza di tanti tomi pieni di note a pié di pagina, scorre senza esitazioni sulle onde di una passione che Fabrizio Poggi conosce dal vivo. Questo per dire che è un libro cool, già ma cosa vuol dire cool? C come cool, e per tutti gli Angeli perduti del Mississippi, Fabrizio Poggi richiama (a ragione veduta) Amiri Baraka alias LeRoi Jones: Il termine cool significa avere un rapporto speciale con tutto ciò che ti circonda. Essere cool vuol dire continuare ad avere un atteggiamento positivo anche di fronte all’orrore che la vita ogni giorno ci propina. Citazione appropriata perché questo libro è davvero frutto di un rapporto speciale con il blues.
Dal blog SARTORIS di Omar Di Monopoli
Da buon musicista – classe 1958, è l’anima della band dei Chicken Mambo – Fabrizio Poggi ha pensato bene di sfornare un’opera prima davvero originale, qualcosa che avesse grande pertinenza con la propria attività senza però tradire l’esigenza di raccontare mondi sconosciuti attraverso la parola scritta. E non si tratta, bontà sua, del solito romanzo decadente italiano ambientato questa volta nel mondo della musica, decisamente no. Angeli perduti del Mississippi è invece un vero e proprio dizionario. Un dizionario del blues, per essere corretti, l’«unica musica popolare realmente americana», qualcosa che nasce confusamente nelle work songs dei neri e che col sovrapporsi delle epoche assurge a musica dell’anima, quasi un battito in cui i silenzi e le pause sono importanti tanto quanto i suoni. In questo bel volumetto – destinato non solo agli appassionati, per fortuna – si raccontano grandi e piccole storie rivelando aneddoti e curiosità sul blues, ma Poggi è attentissimo nell’inserire e contestualizzare ogni definizione all’interno di un’articolata scenografia geografica e sociale, facendoci così entrare senza sforzo nel mondo torrido e rurale (quasi esclusivamente di matrice southern) in cui il blues si è sviluppato, ramificandosi tra voo-doo, gumbo, bayou e blak-dogs. Si viene così a conoscenza del british blues (John Mayall, Tony McPhee) o del luogo in cui il blues ha avuto origine (la pianura del Delta, a sud di Memphis); del viscerale rapporto di Bob Dylan con questo particolare universo o del significato intimo delle jam sessions; e poi s’incontrano tutte le figure cardine del genere, quelle che ancora oggi alimentano e fortificano la leggenda: da Muddy Waters a B.B. King, da Aretha Franklin a Billie Holiday. Insomma, l’autore ci ha consegnato un libro necessario che è bello poter di tanto in tanto consultare. Un libro che ti fa venire voglia di correre in soffitta a recuperare qualche vecchio vinile polveroso per riascoltarlo con attenzione (e finalmente, sia ringraziato il cielo, grazie a Fabrizio Poggi sappiamo cos’era il Mojo – ovvero il Talismano sacro – cantato in Backdoor Man da Jim Morrison!)
Dal blog di BARTOLOMEO DI MONACO
Angeli perduti del Mississippi
Una nuova Mappa musicale che ci porta alla scoperta dell’eterno fascino della musica blues, raccontando le storie disperate e spesso dissolute dei suoi protagonisti, i luoghi in cui e’ nato, le parole, i sapori e i suoni da cui ha preso vita. L’autore, armonicista blues, ci trascina in un viaggio affascinante sulle note della musica nera, rievocandone con passione i miti e le leggende, dai segreti del double talk (il linguaggio in codice usato dagli schiavi per comunicare tra loro) al patto con il diavolo di Robert Johnson, fino ai nuovi eredi dei grandi re del blues.
Dal Blog LANKELOT di Gianfranco Franchi
Tutto il blues dalla A alla Z. A scriverne, un esordiente d’eccezione: il musicista Fabrizio Poggi, armonicista classe 1958, anima dei Chicken Mambo, popolari più negli States che da queste parti. Il blues, unica musica popolare realmente americana, nasce negli hollers e nelle work songs dei neri, diventate uno stile solo col passare del tempo. È uno dei pochi stili in cui i silenzi e le pause sono importanti quanto i suoni. Less is more, insegnavano i vecchi maestri, e Poggi è uno di loro. Robert Johnson sarebbe orgoglioso di lui. In questo libro gli aficionado e i neofiti troveranno entrambi ciò che vanno cercando: conferme e curiosità i primi, rivelazioni e definizioni e ricchi sentieri da esplorare i secondi. Completi di dischi consigliati. Si va, per capirci, dal british blues (John Mayall, Tony McPhee) alla storia dell’etichetta blues principe (Chess Records); dal luogo in cui il Blues è cominciato (la pianura del Delta, a sud di Memphis) sino a quello da cui usciva, magari dopo aver fatto l’amore con una bianca (la back door); dal rapporto di Bob Dylan col blues a quello, molto viscerale, d’ogni musicista col suo Gut Bass; dal senso delle Jam Session (e degli incontri Jama) a quello dei Jinx, i malefici; da Muddy Waters a B.B. King. Qualche assaggio di quel che incontrerete, lettera per lettera, in questo ricco e intelligente dizionario blues.
A come Alabama: patria del codificatore (non fondatore) del blues, W.C. Handy, e dei Lynyrd Skynyrd, e culla di un buon gospel come quello dei Blind Boys of Alabama, e di una voce soul come quella di Percy Sledge (When A Man Loves a Woman).
B come Banjo: Poggi ci racconta la storia dello strumento, ovviamente africano, e il segreto (inizialmente, razzista) del suo successo tra i bianchi: serviva a caratterizzare i neri nei minstrel show, a teatro. Va da sé che col passare del tempo divenne strumento bianco, nel country e nel bluegrass. C come Canned Heat: il nome in codice di una sorta di whisky ricavato dal petrolio, miscela atroce di acqua, alcol denaturato e petrolio. Lo spacciatore del Canned Heat era il Candy Man. Canned Heat fu il nome di una band micidiale capace di scrivere, prima di suicidio e infarto dei suoi leader, un pezzo come On The Road Again.
D come Dixie. Il nome viene dai dixies, ossia le banconote ufficiose da dieci dollari, pre-guerra civile, o dalla Mason Dixon Line, la linea di divisione ideale tra gli Stati che ammettevano la schiavitù, e quelli che la rifiutavano. E come Easy Rider. Una volta significava la chitarra a tracolla dei bluesmen itineranti, hobo pronti a scavalcare un treno dopo l’altro. Quindi, spiega Poggi, sinonimo di qualcuno che getta via i suoi soldi frequentando femmine di malaffare. Di lì a pappone o amante infedele il passo è stato breve. F come Funk. Il termine viene dalla tribù africana dei Ki-Kongo: tra loro, lu-funki era chi aveva cattivo odore. Si suda tanto quando si ha paura. Funk diventa ansia, disagio, angoscia. Si suda tanto anche in altri frangenti. Questo può spiegare la sfumatura sensuale del funk odierno, come genere. G come Gospel. Nato dallo spiritual per insegnare al mondo quanto sia bello pregare Dio con gioia e partecipazione (anche fisica), battendo le mani e cantando a squarciagola la speranza di una vita migliore (p. 106). Gospel viene da God Spell: ovvero, parola di Dio. Bibbia.
H come Harlem, prima meta degli afroamericani a New York, dal 1920. J come Jack Ball (o soltanto Jack), talismano di stoffa e non solo (radici, ciocche di capelli…), molto protettivo. Portafortuna mica da poco. Da abbinare magari a un Juju, splendidamente apotropaico. Niente vale come il Mojo, a quanto pare.
K come Killing Floor, cioè toccare il fondo in assoluto o essere sottomessi, in amore.
L come Lemon, sinonimo degli organi genitali.
M come Memphis o Mississippi, dove il blues si respira nell’aria.
N come New Orleans, che non è mica solo Jazz.
O come Off The Wall, ossia come tutto quel che strano, bizzarro, anomale. P come Policy Game, il gioco del lotto (illegale) di gran moda tra tardo Ottocento e prima metà del Novecento.
Q è Q.
R come Race Records, dischi di razza. Una volta non era considerato un insulto. S come Salty Dog. Significa cagna in calore, e con poco stilnovismo è adottato come epiteto rivolto alle amanti. Nel francese della Louisiana salté significava poco pulito, jouer en salté giocare sporco. Da qui al Salty Dog il passo è stato breve.
T come Texas. Poggi ci ricorda che c’è qualcuno che dice che il blues è nato da quelle parti (Nobody There, Gates Thomas, 1890).
U come universale, perché a quanto pare quella del blues è una lingua che capiscono tutti, bianchi, neri, gialli, in tutto il mondo.
V come voodoo, perché forse c’entra qualcosa ma è meglio fare finta di niente.
W come White Lightnin’, ossia un qualsiasi liquore, purché sia estremamente forte e cattivo.
Z come Zuzu, i biscotti del Sud.
Slang. Qualche chicca, tra le tante.
Axe, asso, è uno dei nomi della chitarra tra i neri di New Orleans. Curiosamente, è lo stesso sinonimo del fucile dei gangster. In comune c’era la custodia.
Bad, per via del double talk dei neri, fondamentale nei lunghi anni in cui i bianchi non dovevano capire affatto, significa l’opposto di quel che sembra: grande talento, grande umanità.
Bag, è un termine molto ricco di sfumature. Bagman significa poliziotto corrotto, mentre trick bag significa talismano. Bag è il genere di musica scelto: blues bag, soul bag.
Blind Pig, in epoca proibizionista, era il nome dei bar illegali. Captain era il nome del capo della piantagione, torna spesso nei blues e negli spiritual.
Cat è uno dei nick dei bluesman, viene da katt, il nome dei cantanti nelle tribù americane Wolof.
Chump è il ragazzo sfortunato, di solito in questioni amorose. Il nome deriva da chum, termine adottato, nel lontano 1650, per indicare un compagno di (mala)sorte in galera.
Coon viene da Racoon, procione, nomignolo affibbiato ai neri nel sud degli State. Coon Song è la canzone cantata in slang nero da artista bianco dipinto di nero.
Coffee e Honey, caffè e miele, erano le sfumature delle pelle dei neri. Daddy è un nomignolo dato dalle donne afroamericane ai loro amanti, e dalle prostitute ai loro protettori.
Dog è chi si compiange per aver perduto l’amata, o per esser stato tradito. Eagle è la paga del venerdì – la paga settimanale, molto poco italiana. Fat Mouth è chi parla troppo.
French Girls erano tutte le prostitute europee – non solo quelle americane. Chissà perchè.
Fuzz era il nome delle guardie nei campi, poliziotti o sorveglianti che fossero. Viene dalla lingua Wolof: fas voleva dire cavallo. Le guardie erano sempre a cavallo. Get Lucky è l’incontro da cui può nascere grande amore o magnifica notte di sesso.
Hard Times è passato, per traslato, a indicare i penitenziari del Sud. Hoosegowè un altro sinonimo, prestato dallo spagnolo messicano. La parola Hokum viene dal teatro, stava a indicare scenette, canzoni, battute facili, magari un po’ spinte. Diventeranno gli Hokum Blues, irriverenti, chiassosi, ambiguotti.
Jake era uno dei pallini dei bluesman. Era un medicinale estremamente alcolico, molto popolare durante il Proibizionismo. Nome ufficiale: Jamaica Ginger. Poteva piegare le gambe, poteva paralizzare.
Jive significa scimmia, in Africa. Nei campi statunitensi, si faceva jive quando si parlava male dei padroni. Come abbia potuto diventare uno swing energico e ballato è un mistero anche per il pozzo di conoscenza Fabrizio Poggi.
Malted Milk era la birra, oppure il latte corretto col whisky. Moonshine il whisky di contrabbando. Salt Water – l’acqua salata – era un altro sinonimo di alcolico, in epoca proibizionista.
Muleskinner erano i neri del Mississippi. Scortica mulo. I neri erano i soli a far lavorare i muli, sugli argini del fiume, perché tra loro e i muli non c’erano grosse differenze, dicevano i bianchi. Reefer è lo spinello. Shank è l’arma di fortuna, fondamentale nei giorni della galera. Spade è la persona di colore.
Adesso voglio ricominciare ad ascoltare Backdoor Man dei Doors con ben diverso spirito. Mr Mojo Risin parlava in codice più spesso di quanto possiamo pensare. Chissà cos’altro ci voleva dire, oltre a quel che ha scoperto Aurelio Pasini, qualche anno fa. Buona lettura e buoni ascolti, intanto.
Dal Blog: LICENZIAMENTO DEL POETA di Davide L. Malesi
Fabrizio Poggi, classe 1958, bluesman e armonicista (dodici album con la band Chicken Mambo, di cui tre registrati negli USA), ha scritto un libro, Angeli perduti del Mississippi, che parla di blues.
Ora: di libri sul blues, se ne scrivono e se ne son scritti tanti. Ed è difficile evitarlo, vista l’influenza che questo genere musicale ha avuto sulla cultura americana, non solo quella musicale. Un esempio su tutti: chi conosce lo slang di strada di città come Baltimora (ok, alzino la mano i fan di The Wire) sa che, tra i neri dei projects, esiste un modo di dire preciso, nel rivolgersi a uno spacciatore di strada, per chiedergli che tipo di roba ha da vendere: What’s your bag? Ebbene: per esperti che siate, in merito allo slang di strada dei giovani neri americani (ok, alzino la mano i fan di The Shield che, come il sottoscritto, se lo sono visto in lingua originale) leggendo il libro di Poggi, potreste avere delle sorprese: ad esempio, scoprire che quella frase in apparenza banale ha una storia, e quella storia nasce dal blues (si veda la voce BAG del libro di Poggi, a pag. 7). Hanno cominciato a usarla i musicisti di blues, per chiedersi a vicenda: Che musica fai? Ho detto si veda alla voce BAG perché Angeli perduti del Mississippi è organizzato in forma di dizionario, dove le voci biografiche si alternano alle nozioni di cultura afroamericana (e non), alla storia sociale etc. Cultura e dati musicali sono mescolati in maniera encomiabile, e si vede che a scrivere il libro è stato un armonicista e amante del blues, e non un musicologo di formazione accademica. Ad es. la voce BACK DOOR MAN ci dice che questa locuzione è usata per indicare l’amante di una donna sposata e, ancor prima, all’epoca della schiavitù, l’amante di una schiava domestica, egli stesso schiavo. Solo dopo ci vien detto che c’è una famosa canzone, Back Door Man, scritta da Willie Dixon (…) Ecco, uno che sta dentro la cultura del blues, secondo me ragiona proprio come fa Poggi: un musicologo invece, l’Arrigo Polillo della situazione (bravissimo, per carità, eh) avrebbe preso la strada opposta: prima la canzone, le varie esecuzioni, le incisioni più famose, poi casomai il resto, il mito che c’è dietro… Un musicologo ti dice prima i fatti, poi la leggenda. Un appassionato di jazz, dalla leggenda non può prescindere, parte da lì. E infatti il sottotitolo del libro di Poggi è: Storie e leggende del blues. Come dire: qui il mito la fa da padrone, per la filologia rivolgetevi a un altro indirizzo.Il libro di Poggi è proprio bello, in questo senso, e mi ha fatto scoprire un sacco di cose che non sapevo. Da una espressione come cold in hand, che negli anni Trenta gli afroamericani usavano per dire di essere senza più un soldo (adesso dicono, meno poeticamente e come tutti, I’m broke) fino alla papera come metafora di libertà (e da solo non ci sarei MAI arrivato: si veda la voce DIVING DUCK, a pag. 65). Passando, per restare in tema, al dramma esistenziale, espresso in forma di metafora, che sta in un pezzo come Pay Day (la voce è DOUBLE TALK, pag. 66) (…)
Certo, la scelta delle voci nel libro è arbitraria, e non potrebbe essere diversamente. (…) Il libro offre un’ampia trattazione del personaggio Bob Dylan, che al blues deve molto come artista, e ha dedicato ad esso parte della sua carriera e della sua produzione (…) La lunga voce su Dylan è scritta e raccontata benissimo, una delle parti migliori di Angeli perduti del Mississippi, specie quando Poggi si tuffa nei retroscena culturali della America dei Sixties, tirando fuori dal proverbiale pork pie hat la storie da brivido che stanno dietro a pezzi come Oxford Town (pag. 78) e Only a pawn in their game, e ancora The Lonesome death of Hattie Carroll (pag. 79). Ed è proprio la voce dedicata a Dylan, forse, a chiarirci le linee-guida della arbitrarietà di Poggi: a pag. 93 l’autore riprende una affermazione di Dylan stesso, proveniente dalla sua autobiografia, secondo la quale il blues scorre nelle sue vene, e ci dice (cito testualmente) che l’essenza del grande bluesman consiste nel fatto di essere capace di condividere col pubblico i sentimenti provati e le esperienze vissute (inevitabilmente meste, o drammatiche, o struggenti; se no, che blues sarebbe, dico bene?)…