BOB MARGOLIN

BOB MARGOLIN Una chitarra da leggenda

Bob Margolin è un chitarrista leggendario. E chi non si ricorda di lui quando nel mitico The Last Waltz, il film d’addio di THE BAND, suonava I’m a man al fianco di Muddy Waters? Quello forse fu il culmine di un’esperienza che segnò inesorabilmente tutta la sua carriera. O meglio, tutta la sua vita.
Dall’agosto del 1973 al 1980 Bob è stato al fianco Muddy. Ovunque.. Sul palco e in sala di registrazione. E anche quando Muddy se ne è andato per sempre in Paradiso, Margolin ha continuato a mantenere in vita la tradizione del buon vecchio Chicago blues, sia con progetti solisti sia suonando con personaggi del calibro di Pinetop Perkins e Hubert Sumlin. Bob ha detto più volte che deve tutto a Muddy. E si sente. Si sente perché quando suona Bob è davvero un drago! E quando lo si ascolta così da vicino, come è capitato a me, si intuisce subito che cosa intuì il grande Muddy Waters quando tanti anni fa decise di chiamare quel giovane chitarrista di Boston a suonare nella sua band.
Il resto è storia. Una storia conosciutissima eppure per certi versi inedita. Una lunga storia che ho cercato di farmi raccontare da Bob in prima persona.

Il tuo cognome suona come italiano, hai radici nel nostro paese?
So che il nome è piuttosto comune nel Nord Italia ma che io sappia non ho collegamenti familiari con il vostro paese.

Inutile girarci intorno. Parliamo subito della tua esperienza con Muddy. So che questa è una domanda che ti avranno fatto un miliardo di volte, ma: chi era Muddy per te?
Muddy Waters era un personaggio carismatico. E nel mondo del blues non ce n’erano e non ce sono tanti. Riusciva a toccare le persone in maniera quasi spirituale. E non solo con la musica. Era gentile con tutti ma anche estremamente riservato. Ancora oggi mi vengono i brividi a pensare a quanto sia stato fortunato ad avere il privilegio di condividere il palco con lui. Nessuno suonava il blues come Muddy Waters. E pensare che quando Muddy mi chiese se volevo entrare nella sua band io gli dissi che avevo qualche problema.

In che senso?
Nel senso che suonavo con una band locale all’epoca. Avevamo aperto diversi concerti di Muddy. E’ così che l’avevo conosciuto. Dissi a Muddy che non me la sentivo di lasciare la band di punto in bianco. Non mi sembrava onesto nei confronti dei miei compagni. Così chiesi a Muddy se non potesse aspettare qualche giorno affinché potessi onorare gli impegni musicali che avevo preso in precedenza . E Muddy apprezzò molto la mia sincerità. Mi disse che quello che gli avevo chiesto mi faceva onore e che inoltre gli faceva capire che nel futuro sarei stato leale anche con lui.

E poi da lì fu tutto rose e fiori?
Tutt’ altro. Passato un primo periodo di luna di miele in cui tutti erano estremamente gentili e premurosi con me, mi accorsi che suonare nella band di Muddy Waters era meno facile di quanto pensassi. Me ne accorsi una delle prime sere quando Muddy mi si avvicinò alla fine di un concerto e mi disse: Vedi Bob, la mia musica è semplicissima, eppure non tutti riescono a suonarla come vorrei. Pensavo di aver fatto qualcosa di sbagliato. Anzi sicuramente l’avevo fatto ma non riuscivo a capire cosa. Muddy fu più chiaro ed esplicito qualche sera dopo quando mi disse: Non suonare più quelle note stridule durante il tuo assolo. Quando lo fai mi si ammoscia tutto quanto. Stasera il suono della tua chitarra mi sembrava quello di un gatto a cui hanno pestato la coda. Insomma critiche per così dire piuttosto costruttive (Bob ride di gusto).

Quindi, seppur a suo modo Muddy, ti stava insegnando a suonare il blues?
In un certo senso è così, anche se Muddy diceva spesso di sentirsi troppo vecchio per poter insegnare qualcosa a qualcuno. Talvolta alla fine dei concerti lo andavo a trovare nella sua stanza d’albergo per chiedergli che cosa dovevo fare per evitare quello sguardo di disapprovazione che qualche volta coglievo nei suoi occhi mentre ero sul palco con lui. Lo imploravo di spiegarmi cosa dovevo fare. Ma lui era sempre piuttosto evasivo. Mi diceva: Certe cose non si possono spiegare. Le devi sentire. E’ come spiegare il dolore per un amore finito male. Non si può.

E quindi come sei riuscito a diventare il chitarrista che sei oggi?
Stando al fianco di Muddy sera dopo sera. Guardando da una posizione privilegiata il suo modo di far uscire quelle straordinarie note dalla sua chitarra. Così, sera dopo sera, ho imparato a dare a Muddy ciò che lui voleva sentire. Lui sapeva che prima o poi ci sarei arrivato. E alcuni suoi sorrisi sul palco li ricordo ancora oggi. Muddy diceva spesso che ci sono due tipi di musicisti: quelli che nascono con il talento e quelli che si costruiscono il proprio suono con chiodi e martello. Muddy sicuramente apparteneva alla prima categoria. Io penso di aver avuto invece , un po’ di talento e tanta, tanta voglia di imparare. Se sono diventato ciò che sono lo devo al falegname che c’è in me.

Visto che non ti pesa raccontare storie che hai probabilmente raccontato centinaia di volte continua a raccontarmi qualcosa della tua esperienza con Muddy.
Nei giorni in cui non suonavamo Muddy mi invitava a stare da lui. Gli dispiaceva che passassi le mie giornate tutto solo in un anonimo motel. Se on the road Muddy era una persona divertente e giocosa, a cui non mancavano però momenti di malinconia e insoddisfazione; a casa propria Muddy diventava un’altra persona; un vero patriarca che si prendeva cura di tutto e di tutti e a cui tutti volevano bene. Gli piaceva passare il suo tempo in cucina con addosso sempre bellissime giacche da camera sorseggiando champagne e conversando con la miriade di figli e nipoti che abitavano con lui.

Sorseggiando champagne?
Sì questo è quello che beveva Muddy dopo che il dottore gli aveva proibito il whiskey per via dei suoi problemi di pressione. A quell’epoca aveva anche smesso di fumare. Anche se ogni tanto mi diceva che le sigarette gli mancavano..

E tu come passavi il tempo a casa sua?
Me ne stavo nel suo soggiorno ad ascoltare le vecchie canzoni della Muddy Waters Band sul mio mangianastri. Lui le ascoltava dalla cucina e sembrava gradirle ancora. Mi diceva che risentire quelle canzoni era un po’ come ritrovare vecchi amici. Spesso faceva commenti e altrettanto sovente mi raccontava aneddoti sulle registrazioni. Cose di cui pochi erano a conoscenza.

Ad esempio?
Ogni volta che ascoltava Little Walter non perdeva occasione per dirmi quanto fosse bravo e di quanto la sua armonica fosse stata importante nel creare il suono della sua band. Muddy adorava Little Walter e si sentiva che gli mancava. Sia come persona che come musicista. Certo c’erano anche le volte che non gli lesinava critiche. Mi ricordo come se fosse oggi che una volta ascoltando Long Distance Call Muddy mi confidò che secondo lui in quella versione Walter stava suonando troppo. Con tutte quelle note – mi disse – copre il suono della voce. Subito dopo però sorrise e aggiunse: Walter era un genio e quindi a lui permettevo cose che non avrei permesso ad altri musicisti. Come quando portò per la prima volta l’armonica cromatica in studio. Io gli dissi che le prove doveva farle a casa propria. Lì in studio non avevamo tempo da perdere con i suoi esperimenti. Quel giorno dovevamo registrare I just want to make love to you. Poi Walter incominciò a suonare quella strana armonica e come sempre tutto andò per il meglio e fui molto soddisfatto del suo lavoro. Nella mia vecchia band Walter e Jimmy Rogers erano l’innovazione. Io invece la tradizione, il collegamento con il blues del Delta.

Oltre ad essere un formidabile musicista sei anche uno scrittore. Hai una rubrica mensile su Blues Revue e hai spesso intervistato i tuoi colleghi per Blues Wax. Cosa mi dici di questa esperienza per certi versi singolare?
Nella mia colonna su Blues Revue scrivo abbastanza liberamente su ciò che più mi colpisce girando il mondo con la mia chitarra. Ho interrotto invece , almeno momentaneamente, la mia collaborazione con Blues Wax. Nelle mie interviste ho sempre cercato di evitare le solite domande banali; cose tipo come hai cominciato? Quali sono i tuoi progetti per il futuro eccetera. Ho sempre cercato di far dire ai musicisti qualcosa di profondo e in qualche modo insolito e spero interessante. Per me scrivere è un po’ come quando compongo una canzone. E’ solo un modo diverso di comunicare con le persone.

Perché secondo te il blues è riuscito a diventare una lingua internazionale che tutti possono comprendere e suonare?
Non molto tempo fa sono stato in Spagna alla convention europea organizzata dall’ Hondarribia Blues Festival. C’era gente da ogni parte d’Europa arrivata lì solo per parlare della musica che amano. E’ stata una cosa molto bella. Oggigiorno, ci sono eccellenti musicisti in tutto il mondo. A volte mi capita di suonare con vere e proprie leggende del Chicago Blues, artisti a cui devo molto; altre volte invece mi capita di trovarmi in qualche nazione e che qualcuno mi dica di avere un’ottima band per accompagnarmi. Ed è sempre davvero ottima. Questo è un modo di farsi nuovi amici. Suonando insieme. So che ci sono persone che quando ascoltano un artista che non è americano e che non è nero si fanno parecchi problemi. Se poi sentono un accento diverso da quello a cui sono abituati è ancora peggio. Quello che io penso è che il mondo sta andando in quella direzione e quindi prima o poi si dovranno abituare ad ascoltare il blues senza badare a queste cose. Ho suonato con musicisti italiani, spagnoli, svizzeri, e insieme abbiamo sempre prodotto ottima musica. In fondo amiamo la stessa musica anche se abitiamo in nazioni diverse.

In questi casi io uso l’espressione Se qualcuno di indica la luna non guardare il dito, guarda la luna! Nel senso che se mi capita di ascoltare un cantante d’opera giapponese con un italiano non propriamente perfetto, la cosa non mi disturba affatto, l’importante è che quell’artista riesca a trasmettere qualcosa alla mia anima. Quella è la cosa importante per me. Questo dovrebbe essere il vero significato del blues.
Mi fanno molto piacere le tue parole anche perché le condivido pienamente.

Pensi che ancora oggi la musica possa in qualche modo rendere questo mondo migliore?
Beh non so se ci sia qualcosa che possa davvero rendere questo mondo migliore. La musica è qualcosa che ci fa sentire meglio. Almeno per un po’. E’ come una droga o una medicina. Senza effetti collaterali però. Quando una band sta suonando tutto sembra andare per il meglio e non c’è nulla che possa farti male o in qualche modo disturbarti.

C’è qualche giovane musicista che hai ascoltato recentemente e che ti ha fatto dire: questo è il futuro del blues, questo è colui che porterà avanti la tradizione del blues?
C’è un giovane musicista di cui sono amico. Ha 26 anni e suoniamo spesso insieme. Vive come me in North Carolina, non troppo distante da dove abito. L’ho conosciuto quando aveva 18 anni. Si chiama Matt Hill e ha un nuovo disco inciso per la Vizztone che si chiama On the floor . Ha un grande senso dello spettacolo e suona il blues in maniera molto profonda. E’ ottimo anche quando offre al suo pubblico rock‘n’roll e rockabilly. Naturalmente non propone nulla di nuovo ma tiene in vita la musica di una volta con lo stesso spirito che quella musica aveva quando si poteva considerare nuova. E’ molto spontaneo in ciò che fa. Sembra davvero che la musica sia dentro di lui.
E’ un ottimo cantante, chitarrista, bassista. Lui è parte integrante della mia band quando suono negli States. Di solito con me suona il basso, ma talvolta ci scambiamo gli strumenti e lui suona la chitarra e canta. E la gente impazzisce per lui. E’ molto simpatico e non mi stupirebbe se un giorno diventasse una star del blues.

Sul muro di un vecchio negozio di dischi in Mississippi ho visto una scritta che diceva: se non ti piace il blues hai un buco nell’anima. Che ne pensi?
Mah, io non la metterei giù così dura. Scritto così sembra un po’ una sfida. Come se si intendesse dire se non ti piace il blues sei uno stupido. E’ un modo negativo di dire qualcosa che invece è molto positivo e cioè che le persone che hanno una bella anima di sicuro amano il blues. Ecco io l’avrei scritto così.

Foto di Angelina Megassini