CHARLIE MUSSELWHITE

CHARLIE MUSSELWHITE The last of the breed 

Charlie Musselwhite è davvero uno degli ultimi grandi del blues. Conosco Charlie da tanto tempo, da quando aprii un suo concerto a Torino, quindici anni fa. Da allora ci siamo sempre tenuti in contatto. L’ultima volta che l’ho incontrato è stato un paio d’anni fa in Mississippi. In quell’occasione gli regalai una copia del mio libro sui grandi dell’armonica blues. Naturalmente lui ne era uno dei protagonisti principali e volle che glielo dedicassi. Io, piuttosto emozionato da quella richiesta, scrissi: “Al mio eroe Charlie Musselwhite”. Ci unisce una sincera amicizia e una stima reciproca. Due sentimenti di cui vado fiero e per i quali mi sento davvero privilegiato. E’ sua l’armonica che compare in I’m on my way il brano che in Spirit & Freedom canto con i Blind Boys of Alabama.Quello che segue è il resoconto di una lunga chiacchierata avvenuta durante il pomeriggio precedente la sua strepitosa esibizione al festival blues di Piacenza. Un ritratto, per certi versi inedito, di una bella persona, gentile e modesta come solo i grandi sanno essere; e di un’epoca, l’epoca d’oro del Chicago Blues, di cui Charlie è stato testimone diretto.

Come ci si sente a essere una leggenda vivente?
Non credo di essere una leggenda vivente.

Si che lo sei.
In ogni caso mi sento bene. Sono contento di poter fare ciò che veramente mi piace. Sono lusingato dal fatto che alla gente piaccia ciò che suono. Ed è’ sicuramente meglio che lavorare in una fabbrica.

Sei stato tu a scegliere il blues o è stato il blues che ha scelto te?
Come canto nella mia canzone “The blues overtook me” (e la canta davvero n.d.r.), il blues mi ha catturato quand’ero bambino e mi ha in qualche modo colto di sorpresa perché allora non sognavo minimamente di fare il musicista da grande. Mi piaceva la musica e l’unica cosa che volevo fare non era certo salire su un palco ma suonare per me stesso nella mia stanzetta. Gli eventi poi mi hanno portato a diventare ciò che sono oggi e quindi sono felice che il blues mi abbia catturato e che ancora oggi non mi voglia lasciare andare.

Ad un certo punto della tua vita hai lasciato Memphis dove sei cresciuto per trasferirti a Chicago. Puoi raccontarci cosa ti ha spinto ad andare lì?
Quando ho pensato di andare a Chicago non sapevo minimamente che Chicago fosse una blues town. La mia idea di Chicago è che fosse una grande città del nord, piena di fabbriche che davano lavoro. Quando sono arrivato, girando per la città, vedendo i manifesti e le locandine appese nei bar, ho scoperto che lì vivevano e suonavano tutte le band di blues che mi piacevano. Su di un manifesto c’era scritto Muddy Waters. Wow! Muddy Waters! Non riuscivo a crederci. Presi l’indirizzo e ci andai la sera stessa. In quei locali non c’era gente della mia età. Né bianchi, né neri. E tutti i musicisti erano davvero lusingati dalla mia presenza, anche perché io conoscevo a memoria tutte le loro canzoni. In quegli anni il blues non era la musica preferita dai giovani, quindi il fatto che io fossi lì era considerato davvero qualcosa di speciale. Quando il lunedì ritornavo in fabbrica e parlavo ai miei colleghi di ciò che avevo fatto nel weekend, tutti mi guardavano con stupore. C’era chi era andato a pescare, chi in campagna con la famiglia, chi al cinema. Io ero andato a sentire Muddy Waters. Quelli della mia età mi dicevano: “Muddy Waters? Ma tu sei fuori di testa! Quella lì è roba vecchia”. Io rispondevo: “A me piace Muddy Waters. E mi piace anche Howlin’ Wolf”. “Howlin’ Wolf? – dicevano loro – Oh man! Tu devi essere pazzo. Quello che devi sentire sono le Supremes”. Io rispondevo: “Non ho nulla contro le Supremes, ma a me piace il blues”.

So che da bambino eri un tipo solitario, (così come lo ero io), e so anche che la musica e l’armonica sono stai i tuoi migliori amici in quegli anni. E’ vero? A me la musica ha aiutato molto a combattere la timidezza. E a te?
Il blues è davvero il tuo compagno ideale quando ti senti giù. Ti aiuta a tirarti su. E in quei giorni mi ha dato conforto. Certe volte sembrava che mi sorreggesse, anche fisicamente. Che mi desse forza per andare avanti. Non importa quanto di negativo ci fosse nella mia vita, la musica mi faceva stare bene. Era come un balsamo che curava i miei dolori. Un balsamo per il cuore e per l’anima.

Quali sono stati i bluesmen che ti hanno maggiormente influenzato?
A Memphis sicuramente Will Shade (della Memphis Jug Band n.d.r.), Furry Lewis, Willie B. (Willie Borum n.d.r.), e poi a Chicago Big Joe Williams, Walter Horton, Yank Rachell, Sonny Boy Williamson, Jimmy Reed, ma sono davvero tanti coloro da cui ho tratto ispirazione. Tutta gente che ho conosciuto e con cui ho suonato. Gente che mi voleva davvero bene e che m’incoraggiava.

Quali sono per te i 5 cds da portare su un’isola deserta?
(Charlie sospira come se pensasse di dover rispondere a una domanda molto difficile, e forse lo è).
Il primo della lista sarebbe senz’altro“Live on Maxwell Street” di Robert Nighthawk, e il disco dal vivo di Magic Sam perché davvero catturano l’atmosfera che c’era in quel periodo a Chicago per le strade e nei clubs. Ma ce ne sono così tanti…Porterei sicuramente qualcosa di Big Joe Williams, John Lee Williamson – il primo Sonny Boy -, Little Walter, Charlie Patton, Muddy Waters, Howlin’ Wolf, George Smith, Papa Lightfoot …

Tu hai conosciuto e suonato con tutti i grandi bluesmen del passato, Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Walter Horton. Cosa ricordi di ognuno di loro?
Di Muddy Waters e Howlin’ Wolf ricordo che erano come due facce della stessa medaglia. Muddy era uno che voleva sempre far festa, Wolf d’altro canto, al contrario di ciò che si vedeva sul palco, era molto rigido e serioso, e piuttosto severo con i suoi musicisti. A Muddy ciò che importava maggiormente era divertirsi, bere e stare con i suoi amici musicisti. Entrambi suonavano grande blues ma erano molto diversi fra loro.
Di Walter Horton posso solo dire che era davvero una brava persona. Ci facevamo delle grandi camminate per Chicago per andare a trovare gli altri musicisti e bere qualcosa con loro. Mi presentava come un grande armonicista che veniva come lui dal Mississippi. Poi tiravamo fuori l’armonica e suonavamo qualcosa insieme. Walter non mi ha mai insegnato nulla, ma da lui ho imparato tantissime cose solo standogli accanto.

Che ricordo hai di Little Walter sicuramente il più grande armonicista di tutti i tempi ma personaggio estremamente controverso?
Il Little Walter del film Cadillac Records (il film sulla Chess Records n.d.r.) non ha niente a che vedere con il Little Walter che ho conosciuto io. In quel film sembra un vero idiota. In realtà Little Walter era un bravo ragazzo. Si è vero, spesso si trovava coinvolto in qualche rissa, ma in quegli anni era normale. Nei clubs si beveva molto e la rabbia esplodeva sovente in violenti diverbi. Con me lui si è sempre comportato gentilmente. Più di una volta mi ha dato un passaggio a casa dopo un concerto. Spesso quando si esibiva, scendeva dal palco, suonando l’armonica dentro a un microfono con un cavo molto lungo. Quando arrivava al mio tavolo mi passava il microfono e l’armonica e mi diceva: “Vai avanti tu Charlie”, e lui per un po’ se ne stava al bar a bere e a corteggiare le ragazze.

Cosa ci dici del grande John Lee Hooker?
L’ho incontrato per la prima volta a Chicago al “Paradise Club”, dove veniva spesso a suonare. Siamo diventati subito grandi amici e lo siamo stati per tutta la vita. Lui fu uno di quelli che mi convinse a trasferirmi in California. E’ stato anche il mio testimone di nozze, e quando è mancato fui chiamato dalla famiglia per ricordarlo al suo funerale.

E Willie Dixon?
Willie Dixon era davvero simpatico. Lo incontravo spessissimo nei club che lui bazzicava in qualità di talent scout. Anche lui era un buon amico con cui chiacchieravo spesso. Era una persona dolce che non aveva mai da dire con nessuno. A dir la verità nessuno si sarebbe messo a litigare con lui dal momento che era grande e grosso e che era stato un ottimo pugile. Era stato lo sparring partner di Joe Lewis il grande campione dei pesi massimi. Tutti lo amavano e rispettavano. A proposito di Willie Dixon, c’è una divertente storia che vorrei raccontarti. Un giorno Mike Bloomfield ed io andammo a far visita a Sleepy John Estes. Eravamo entrambi all’inizio della nostra carriera. Arrivammo sul posto con la macchina della madre di Mike. Lì c’erano anche Willie e il pianista Eddie Boyd. In casa c’era una chitarra, e ogni volta che c’era una chitarra Mike non resisteva, la prendeva in mano e cominciava a suonare forsennatamente scale su scale, licks velocissimi e tutto ciò che sapeva fare sulla sei corde. E anche quella volta non si smentì. In un raro momento in cui Mike aveva posato la chitarra per un attimo, la presi io, e cominciai a suonare qualche semplice accordo che avevo imparato in Mississippi, niente di speciale ovviamente al confronto di ciò che Mike sapeva suonare. Poi successe una cosa inaspettata. Willie Dixon che mi stava ascoltando disse a Sleepy John Estes indicandomi: “Questo ragazzo farà strada perché ha un sacco di anima quando suona”. A quel punto, dopo quella frase, Mike mi disse: “Dai, dai, Charlie, sbrigati che dobbiamo andare via subito perchè devo riportare al più presto la macchina a mia madre”. (e a questo punto Charlie ride sonoramente e io con lui).

Conoscevi bene anche Otis Rush?
Sì, Otis Rush era un grande amico. Io e Johnny Young aprivamo i suoi concerti all’Hot Spot di Chicago. Una volta che Otis doveva andare a suonare a Omaha, io gli prestai la macchina e lui per contraccambiare il favore, mi regalò una vecchia chitarra, una Gibson Les Paul che oggi varrebbe una fortuna. Vorrei non averla venduta qualche tempo dopo. 

So che sei molto legato anche a Carey Bell?
Ho conosciuto Carey Bell perché eravamo entrambi nella band di Johnny Young in cui lui suonava il basso. Insieme suonavamo anche a Maxwell Street con Robert Nighthawk. Eravamo in due all’armonica, Carey e io e, a turno, giravamo tra il pubblico con una scatola di sigari per raggranellare qualche spicciolo. Carey è stato davvero un buon amico, una persona con un grande cuore e vorrei che fosse ancora qui con noi (Charlie si commuove come ha fatto e farà in altri momenti dell’intervista ricordando i grandi del passato che ha conosciuto e i momenti trascorsi con loro).

Cosa mi dici di B.B. King?
B.B. King è un esempio per tutti. Un vero gentleman. Ha sempre un momento per tutti, e una frase gentile per tutti coloro che incontra. E’ semplicemente una persona meravigliosa. E’ un vegetariano. Una volta mi disse che non avrebbe mai voluto mangiare “qualcosa che avesse una mamma”.

Un altro grande a cui sei molto legato so che è Big Joe Williams. E’ così?
Big Joe Williams è stato uno dei miei maestri. Muddy Waters aveva un grande rispetto per lui e spesso lo presentava ai suoi spettacoli come l’uomo che aveva scritto “Baby please don’t go”. Vivevamo nella stessa stanza a Chicago. Spesso di notte ci mettavamo seduti e lui mi raccontava di quando suonava con Robert Johnson e Charlie Patton. Erano storie misteriose e affascinanti.
Una di queste era ambientata in un posto frequentato da giocatori di professione. Uno di questi si chiamava Blue Steel, e si diceva che potesse trasformare se stesso in un coniglio e fuggire indisturbato quando la polizia faceva irruzione nel locale. Joe mi raccontò che una volta che si trovava a suonare in quella bisca clandestina, arrivò la polizia. A Blue Steel, Joe era molto simpatico, quindi decise di non trasformarsi in un coniglio e di andare con lui in galera. Sarebbero poi fuggiti insieme nella notte. E Joe mi ha giurato più volte su ciò che aveva di più caro che in piena notte quando tutti caddero addormentati, Blue Steel si avvicinò alla porta della cella, soffiò sulla serratura e la porta magicamente si aprì permettendo ai due di fuggire.

E di Paul Butterfield l’altro grande armonicista bianco del Chicago Blues cosa mi dici? 
Mi piaceva molto come suonava ed eravamo amici. Spesso ci trovavamo a sentire dischi. Lui portava la musica ed io la Pepsi Cola che all’epoca era la sua bevanda preferita. Uno dei ricordi più belli e toccanti di quei giorni è quello in cui mi vedo ancora; come se fosse oggi; camminare con Paul e Mike Bloomfield lungo una strada di Chicago, schioccando le dita a tempo e cantando “Juke” di Little Walter che era la nostra canzone preferita. Eravamo giovani, innocenti e felici e non sapevamo che cosa la vita ci avrebbe riservato. Un grande musicista che vorrei ricordare, magari meno conosciuto, è John Lee Granderson. Ha fatto solo pochi dischi, che non catturano appieno ciò che lui era capace di trasmettere dal vivo con la sua chitarra. Era un tipo emotivo e lo studio lo metteva parecchio in agitazione. Ho suonato a lungo con lui e mi ha insegnato molte cose, specialmente alla chitarra. Un vero grande bluesman. La sua versione di “Minglewood blues” (scritta da Noah Lewis ma diventata famosa con i Grateful Dead n.d.r.) è una delle migliori.

Quali sono stati i momenti più importanti e indimenticabili della tua carriera?
(Charlie sorride) Sono due: quando ho incontrato e sposato mia moglie Henrietta; e quando per merito suo ho smesso di bere ventidue anni fa e probabilmente non sarei qui oggi se non lo avessi fatto. Henrietta è la mia migliore amica e il mio personal manager. E’ stato amore a prima vista e siamo ancora insieme da più di quarant’anni.

Come hai imparato a suonare l’armonica?
Sto ancora imparando! Come ben sai non è possibile vedere suonare un armonicista perché lo strumento è completamente coperto dalle sue mani. Così puoi solo immaginarlo e cercare di imparare a suonare per conto tuo. Da piccolo andavo a far pratica nei boschi vicino a casa mia (anch’io n.d.r.). Ascoltavo i dischi e cercavo di tirare fuori dalla mia armonica un modo di suonare che fosse davvero mio. Ci sono armonicisti che conoscono tutti gli assoli di Little Walter, nota per nota. Il problema è che poi non riescono a suonare nient’altro, e naturalmente neanche ad avere un proprio stile, unico e riconoscibile. Io li rispetto ma non è quello che ho fatto io quando mi sono avvicinato all’armonica.

C’è una leggenda che dice che Walter Horton insegnò a Little Walter e Sonny Boy Williamson II come suonare l’armonica. E’ vero? Cosa ne pensi?
A Big Walter piaceva raccontare storie, quasi tutte inventate. Così spesso quando parlava era difficile capire quale fosse il confine tra realtà e finzione. Lui mi ha davvero raccontato di avere insegnato a Little Walter e Sonny Boy, ma chissà se è vero. Quello che tutti dicevano in quegli anni a Chicago era che Horton era colui che insieme a John Lee Williamson aveva dato dignità all’armonica trasformando uno strumento popolare in uno strumento professionale. Ma erano in molti a pensare che quella leggenda fosse realtà.

Quale è stato in assoluto il primo armonicista che hai ascoltato?
Probabilmente Sonny Terry. La sua “Hootin’ the blues” era la sigla di un programma che Rufus Thomas trasmetteva tutte le sere dalla WDIA, una famosa radio di Memphis.

Hai lasciato il Mississippi tanti anni fa. Cosa è rimasto in te ancora oggi della “terra in cui il blues è nato”?
Oh, il Mississippi è sempre dentro di me. Il Mississippi è qui anche adesso. Dovunque tu vada a vivere, resterai uno del Mississippi per tutta la vita. Se ami il blues, prima o poi nella tua vita, devi andare a Clarksdale (in Mississippi n.d.r.). Lo spirito più autentico del blues è ancora lì e puoi davvero sentirlo. E’ un’esperienza che non si può raccontare a parole, bisogna viverla. Lì, se si ama il blues, ci si sente a casa. Questa è la magia del blues. Il riuscire a trasmettere emozioni anche a chi non conosce le parole delle canzoni.

Hai suonato spesso con i Blind Boys of Alabama e Mavis Staples. Qual è il tuo rapporto con il gospel?
Il gospel mi piace molto. C’è dentro molto sentimento. Ed è molto vicino al blues. Come il blues anche il gospel viene dal cuore e dall’anima. In pochi lo sanno ma, e non è un caso, Jimmy Carter dei Blind Boys of Alabama, nei momenti liberi, ascolta con l’iPod il grande Lightnin’ Hopkins. Il gospel mi ha aiutato molto in alcuni momenti difficili della mia vita. Mi ricordo di una volta in cui a Chicago ero molto malato. Mi sentivo debolissimo e l’unica cosa che riuscivo a fare era spostare il braccio del giradischi all’inizio di un disco che suonavo continuamente. Sul piatto c’era il primo album degli Staples Singers. Sentivo che, a poco a poco, quella musica mi stava guarendo. Quando anni dopo incontrai Pops Staples, lui fu molto colpito quando gli raccontai questa storia. Quella volta ci mettemmo tutti in cerchio, io, Mavis, Yvonne, Cleotha, Pervis e Pops e tenendoci per mano recitammo una preghiera. E… Wow! Stavo quasi per piangere. Fu molto commovente. Pops era una brava persona. Sai che Charlie Patton gli insegnò a suonare la chitarra? Molta gente non lo sa, ma Pops quand’era un bambino viveva alla Dockery Plantation che è dove lavorava Charlie Patton. (Potete ascoltare Charlie che suona con i Blind Boys of Alabama e Fabrizio Poggi & Chicken Mambo cliccando qui).
I’m on my way

Qualcuno qualche tempo fa, qui in Italia, ha scritto che “Church is out” la canzone che apre il disco “Delta hardware” ricorda (ed è un complimento) il grande Johnny Cash. Qual è il tuo rapporto con la musica denominata “roots music” o “Americana music”?
E’ tutta musica che ha dentro un grande feeling. La musica roots non è pop music. E’ una musica semplice e vera. E’ qualcosa che arriva direttamente dal cuore. Qualcosa che si suonava nelle campagne e che chiunque può apprezzare anche se non conosce la lingua. E’ qualcosa che va oltre le parole. Andavo a scuola con il fratello di Johnny Cash, Tommy (a Memphis n.d.r.). Johnny talvolta veniva a vederci giocare a basket. Spesso andavo a trovare un mio amico che abitava vicino a lui. Johnny stava spesso sui gradini della sua casa a suonare, e il mio amico, indicandomelo, mi sussurrava: “Lo vedi quello lì? E’ Johnny Cash, un cantante country”. A quell’epoca non sapevo assolutamente nulla di lui. Quella era l’epoca in cui Johnny vendeva frigoriferi o qualcosa di simile. Solo qualche anno dopo incise dei dischi. Mi ricordo che quando diventò famoso vedevo spesso la sua prima moglie passare per le strade di Memphis su di una Thunderbird fiammante. Una cosa abbastanza insolita in quegli anni.

Ascoltando tuoi dischi come “Continental drifter” e “Sanctuary” e conoscendo le tue collaborazioni con artisti come Tom Waits, Ben Harper e gli INXS, si può intuire che sei attratto dalle sfide musicali e dalle contaminazioni tra i generi. O sbaglio?
In realtà quello che voglio è divertirmi con la musica. La mia opinione è che portare il blues dentro altre musiche non possa far altro che migliorarle. Qualcuno ritiene che il blues debba essere quello canonico di dodici battute. Per me il blues è solo un mezzo incredibile per tirar fuori ciò che hai dentro e quindi il blues può essere espresso in tanti modi.

(Ringrazio per la preziosa collaborazione Henrietta Musselwhite, Angelina Megassini, “Dal Mississippi al Po” Piacenza Blues Festival, e Gianni Ruggero della Groove Company).

Foto di Ermanno Buongiorni